La inattualità del disegno di legge sui beni comuni della Commissione Rodotà
Alcuni chiarimenti sull’iniziativa di trasformare lo schema del
disegno di legge sui beni comuni della Commissione Rodotà in una
proposta di legge di iniziativa popolare.
L’iniziativa di trasformare lo schema di disegno di legge della
Commissione Rodotà, redatta da alcuni studiosi dieci anni fa, in una
proposta di legge di iniziativa popolare, impone una analisi critica del
testo. Sarebbe assurdo, infatti, che il Popolo presentasse un disegno
di legge, senza conoscerne il contenuto. Peraltro è da sottolineare che
questo disegno di legge si limita a “controllare” le “privatizzazioni”,
mentre oggi è fin troppo evidente che queste ultime devono essere del
tutto eliminate e non semplicemente “disciplinate”. Infatti oggi il vero
problema è “ricostruire” il “patrimonio pubblico”, cioè la “proprietà
pubblica”, che sciagurate leggi incostituzionali hanno dato a privati, i
quali sono diventati i veri detentori delle ”fonti di ricchezza
nazionale”.
Venendo, comunque, all’analisi del testo e della relativa “Relazione
di accompagnamento” (allegata alla presente) è innanzitutto da ricordare
che quest’ultima ricorda che “una simile iniziativa era stata proposta
già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’economia e
delle finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato
avviato in quella sede per la costruzione di un conto patrimoniale delle
Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità
internazionale. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi
processi di valorizzazione e privatizzazione di alcuni gruppi di
cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter
contare su un contesto giuridico dei beni che fosse più al passo con i
tempi e in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione
e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni
pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali dismissioni (ed
eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) fossero realizzate
nell’interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte
di medio e lungo periodo”.
Al riguardo, la Relazione precisa che sull’argomento ci fu una
riunione presso l’Accademia dei Lincei e che “in quella sede un
autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti), era giunto
unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro
sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro strettamente
collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni
pubblici contenuti nel codice civile attraverso l’istituzione di una
apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del
lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del conto
patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto
della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è
stata accolta dal Ministero della giustizia. I lavori della Commissione
sono stati avviati con la prima riunione plenaria che si è tenuta
presso il Ministero il 4 luglio 2007”.
I risultati dello studio sui beni facenti parte del patrimonio delle
Amministrazioni pubbliche hanno dimostrato fondamentalmente i danni
prodotti dalle “dismissioni”. Mentre i lavori della Commissione hanno
messo in evidenza la chiara finalità di adeguare il “contesto giuridico”
alle esigenze contabilistiche del “conto del patrimonio”.
E’ per questo che la Relazione di accompagnamento allo schema del
disegno di legge della Commissione Rodotà dedica uno spazio particolare
al tema della proprietà pubblica.
A tale proposito in detta Relazione si legge che “la matrice della
moderna dottrina del demanio nasce da una distinzione nell’ambito dei
beni (soggettivamente) pubblici, tendente ad individuare alcune
categorie di beni da tenersi fuori dall’applicazione del diritto comune
perché strettamente destinati ad una funzione di pubblico interesse”.
Con ciò la Commissione riconosce che la costituzione della categoria dei
beni demaniali poggia “sulla funzione dei beni”, ma poi propone di
sopprimere il demanio, ritenendo che esso non tenga conto di tale
funzione.
L’art. 1, comma 3, lett. d) (il testo è allegato alla presente),
abrogativa del demanio, così si esprime: “sostituzione del regime della
demanialità e della patrimonialità attraverso l’introduzione di una
classificazione dei beni pubblici appartenenti a persone pubbliche,
fondate sulla loro natura e sulla loro funzione in attuazione delle
norme costituzionali”. Qui emerge una prima contraddizione: si afferma
che il demanio tiene fuori del diritto comune i beni “strettamente
destinati a una funzione di pubblico interesse” e poi lo si abroga come
se non avesse tale funzione.
Questa contraddizione pare approfondirsi nel seguito della relazione,
nella quale si legge: “Dal punto di vista dei fondamenti, la riforma si
propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni
giuridiche del passato. Invece del percorso classico che va “dai regimi
ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai
beni ai regimi”. Ma, come abbiamo visto, “la matrice moderna” del
demanio sta proprio nel tener fuori del diritto comune (fuori
commercio), taluni beni che soddisfino bisogni di “pubblico interesse”.
Dunque, piuttosto che eliminare il demanio, si poteva rafforzare il
nesso sul quale insiste il diritto costituzionale, tra appartenenza del
bene e vincolo di destinazione, dove per destinazione si deve intendere
il rafforzamento del regime democratico e il libero sviluppo della
persona umana nel suo contesto ecologico, naturale e sociale.
Quanto ai “beni comuni” è bene leggere direttamente il testo del
disegno di legge: “Previsione della categoria dei beni comuni, ossia
delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali nonché al libero sviluppo della persona …. Titolari di beni
comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati, in ogni
caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e
secondo le modalità fissate dalla legge. Quando i titolari sono persone
giuridiche pubbliche, i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e
sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli
casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità
di proroghe” (segue una classificazione di beni tratti dall’elencazione
del codice civile dei beni demaniali e dei beni indisponibili).
In questo caso ci troviamo di fronte a un forte arretramento rispetto
a quanto disposto dal codice civile a proposito del “regime dei beni
demaniali”, perché i beni comuni posti fuori commercio sono di fruizione
collettiva e gratuita da parte di tutti, soltanto “se sono gestiti da
soggetti pubblici”, se invece si tratta di beni in titolarità privata
“la fruizione collettiva deve essere garantita” da questi ultimi.
Insomma, il ruolo delle Comunità nell’uso, nella cura e nella
gestione dei beni comuni non è presa in considerazione, riducendo la
Comunità a mero fruitore e lo Stato a un apparato burocratico. Da questo
punto di vista il demanio dava più garanzie, perché, nella prospettiva
dello Stato comunità, esso è da considerarsi come “proprietà collettiva
demaniale” aperta alla partecipazione diretta del tanto invocato Popolo.
Un esempio sono la persistenza nel nostro ordinamento degli usi
collettivi che quasi sempre rientrano, non a caso, nell’area demaniale.
Ciò non ostante, la Relazione di accompagnamento afferma in
proposito: “Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina
particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a
rafforzare la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva,
da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza
prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni
future. In particolare la possibilità della loro concessione a privati è
limitata. La tutela risarcitoria e la tutela ripristinatoria spettano
allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle
utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto
soggettivo alla loro fruizione”. Definire la disciplina prevista dal
disegno di legge della Commissione, più “garantistica” e “rafforzata”
rispetto a quella prevista dal codice civile per i beni demaniali, è
davvero un controsenso. La verità è che non andava soppresso il
“demanio” e la corrispondente proprietà collettiva demaniale del Popolo,
ma andavano soltanto aggiunti ai beni demaniali alcune categorie di
beni attualmente inseriti nel “patrimonio indisponibile” dello Stato,
come, ad esempio, le “foreste”.
Tornando al testo del disegno di legge, è da ricordare che questo,
all’art. 1, comma 3, lett. b) distingue i beni in tre categorie: “beni
comuni, beni pubblici, beni privati” , e, allo stesso comma, lett. d)
distingue i beni pubblici in altre tre categorie: “beni ad appartenenza
pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni pubblici fruttiferi”.
Un riordino, come agevolmente si nota, che non presenta nulla di chiaro
ai fini della concreta disciplina dei beni pubblici.
Senza fare chiarezza sulle incertezze appena esposte si rischia di
predisporre un contesto giuridico troppo permeabile alla tendenza a
“dismettere” o a “privatizzare” i beni del Popolo Italiano. E questo è
ancora più grave se si considera che la suddetta proposta di legge ha
soppresso il concetto di “Stato comunità”, affermato dall’art. 1 della
Costituzione, secondo il quale: “L’Italia è una Repubblica (cioè una
Comunità) democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al
Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ed
ha sostituito ad esso il concetto, proprio dello Statuto Albertino,
dello “Stato persona giuridica”. Inoltre, ha soppresso la “proprietà
pubblica” prevista dall’art. 42, primo comma, della Costituzione.
Proprietà che il Giannini definiva “proprietà collettiva demaniale”. E
infine ha soppresso, in violazione dell’art. 3, comma 2, Cost. e
dell’art. 118, ultimo comma, Cost. la “partecipazione dei cittadini
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (così si
esprime l’art. 3 Cost.). Tralasciando così proprio il punto centrale sul
quale si è svolto il dibattito dottrinale sui beni comuni: quello della
gestione di questi beni direttamente da parte dei cittadini, come ha
sottolineato la Ostrom.
Così facendo, la Commissione ha facilitato coloro che studiano la
compilazione di un Conto patrimoniale alla stregua della contabilità
internazionale. Infatti ha rimesso tutto nelle mani della Pubblica
Amministrazione e di singoli privati ed ha eliminato la difficoltà di
distinguere i beni demaniali della Collettività da quelli appartenenti
allo Stato persona.
Alla luce di queste poche e brevi considerazioni sul testo della
Commissione Rodotà appare evidente che esso non corrisponde affatto alle
attuali esigenze del Popolo Italiano, che sta attraversando una crisi
economica senza precedenti. Oggi non serve una legge che si limiti “a
controllare” o “contenere” le “dismissioni”, le “privatizzazioni” e le
“svendite”, ma una legge che aiuti lo sviluppo economico e aumenti i
posti di lavoro, riportando nel “pubblico”, come sopra si diceva, quello
che indebitamente è stato ceduto ai “privati”, con la conseguenza
dell’arricchimento di pochi e dell’impoverimento di tutti gli altri. Ed è
oltremodo evidente che, a questi fini, la cosa più urgente da fare è
prevedere una legge che contenga una “interpretazione costituzionalmente
orientata” (vedi articoli 41 e 42 della Costituzione) del concetto di
“proprietà privata”, quale risulta dall’articolo 832 del codice civile
(scritto quando vigeva lo Statuto Albertino), poiché è proprio in base a
questo concetto che diventano possibili le “privatizzazioni” e le
“delocalizzazioni”, le quali sottraggono al Popolo Italiano tanta parte
del “patrimonio pubblico”, che a lui appartiene, come afferma la nostra
Costituzione, a titolo di “sovranità”.
Paolo Maddalena
Fonte: Attuare la Costituzione
(by Nicola)
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