PROLOGO
È difficile scrivere qualcosa su quello che sta accadendo a Taranto
in questi giorni per una ragione molto semplice: non c’è niente di
nuovo. Che il popolo tarantino fosse stato sacrificato sull’altare del
progresso e del profitto era un dato che avevamo acquisito già da
tempo. Che ogni reale tentativo di mettere un freno a questa situazione
dovesse cadere nel vuoto, lo avevamo visto nel 2012 con
il decreto Salva Ilva, che mandò a farsi benedire il lavoro di indagine
della gip Todisco e di fatto violò 17 articoli della Costituzione,
imponendo la riapertura e la ripresa della produzione di un impianto
sequestrato.
Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice
dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano
condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di
allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei
territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a
spolparli da parte di chi se ne appropria.
Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello
schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la
lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni,
annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio
debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo
diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si
imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire
qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.
Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di
complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una
scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il
tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha
deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.
UNA SUGGESTIONE
Scrivere semplicemente di quello che sta accadendo in questi giorni a
Taranto sarebbe un’operazione che lascia il tempo che trova; chi vuole
sapere sa già, chi non sa, non ci capirebbe molto, senza andare a
ritroso nel tempo.
Su youtube sono disponibili molti video della costruzione dello stabilimento accanto
al quartiere Tamburi, e sono tutti ugualmente impressionanti. Ci sono
enormi macchine che sradicano ulivi millenari e riducono in poco più che
calcinacci masserie secolari, per lasciare spazio a “un’immensa
prateria senza ombre né segreti, senza più canto di vento”, dove sarebbe
dovuto sorgere l’altare del progresso, la più grande acciaieria
d’Europa, il tempio della crescita. Sono tutti uguali, una voce
cadenzata racconta di una civiltà millenaria rassegnata, lenta e
sonnolenta che dal nulla si è risvegliata e come fuoco guizza ansiosa
per raggiungere un domani metallico e artificiale. Il progresso è
esaltato come un idolo, una divinità vera e propria, di fronte alla
quale non battere ciglio nel sacrificare il proprio figlio primogenito,
la propria terra.
NEL SANGUE DELL’EROE
Ma se di divinità si trattava, doveva essere una di quelle divinità
pagane beffarde, incuranti delle sorti dell’uomo e forse addirittura
malvagie nei suoi confronti, vendicative per chissà quale affronto.
Sempre su youtube e sempre per gli appassionati del genere si può
trovare un documentario del 1962 di Emilio Marsili: “Il pianeta d’acciaio”,
dedicato alla nascita delle acciaierie che hanno fatto grande questo
Paese, imponendo il proprio contributo al boom economico e lasciando
dietro di sé una scia di morti e feriti. La solita voce narrante che
racconta le immagini che si susseguono compie esattamente questa
operazione: dà corpo e anima all’acciaio e lo presenta come “una
creatura tremenda, veramente un mostro e per poterlo domare e
trasformarlo in cose l’uomo deve farlo impazzire col fuoco”.
L’unico modo per domare il mostro è il fuoco, ma quello che il
documentario di Marsili non ci dice è che il mostro si vendica, e si
annida nel sangue dell’eroe che lo doma, e lo avvelena giorno dopo
giorno, generazione dopo generazione.
L’acciaio i tarantini ce l’hanno nel sangue, nei polmoni, nel dna. I bambini del quartiere Tamburi hanno quoziente intellettivo inferiore alla media dei loro coetanei, apprendono meno e più lentamente. I problemi respiratori e cardiovascolari e tumorali dei loro genitori,
quando non glieli portano via, accrescono il numero di ricoveri e
ospedalizzazioni della città in una maniera che è così plateale che
nessuno lo nega più. I cittadini di Taranto cadono come soldati in una
guerra che nessuno gli ha detto che avrebbero combattuto, in una guerra
in cui si sono trovati a loro insaputa, cosa che deve essere decisamente
peggiore di quella di sorprendersi a possedere una casa con vista sul
Colosseo.
LA SCELTA DI ACHILLE
Eppure c’è chi dice che non è così, che i tarantini sono soldati
consapevoli e che hanno scelto volontariamente di scendere in battaglia.
C’è chi dice che questo è il migliore degli accordi possibile perché
rispetta la volontà della città di mantenere lo stabilimento. Uscendo
dalla metafora, mandando a casa i mostri e in licenza i soldati, la
convinzione diffusa è che questa sia la migliore delle soluzioni
possibili, che così la città sarà salva, che è questo quello che
volevano gli operai che di Ilva vivono e di Ilva muoiono, che di questo
ha bisogno Taranto: che l’Ilva resti in piedi, che sia designato un
nuovo custode al tempio.
Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Con l’Ilva si mangia, si
beve, si va in vacanza al mare e in montagna. Con l’Ilva si compra la
tv, si pagano le rette universitarie di quei figli lontani, andati a
studiare altrove. Si compra il guinzaglio al cane, si ricarica il
cellulare e si paga la bolletta della luce. Si comprano i detersivi, si
paga il canone RAI, si prenotano i viaggi per andare negli ospedali al
Nord, per curarsi. Con l’Ilva si fanno un sacco di cose, e poco male se
tra le tante si muore pure. Tutti dobbiamo morire, ma prima di morire
dobbiamo mangiare, bere, andare in vacanza, pagare le rette eccetera.
Perché questa poi sarebbe la scelta, una contemporanea trasposizione
sfigata della scelta di Achille: un duplice fato conduce i tarantini
alla morte, da un lato una fine prematura e dolorosa, ma una vita
vissuta quanto basta a renderla vivibile, dall’altro lasciare il campo,
deporre le armi e rinunciare, condannandosi a una salute lunga e vuota,
condotta nella terra dei padri, a invocare la morte perché perduto
sarebbe il senso della vita.
Pazzo e criminale è chi ritiene che questa sia una scelta libera.
C’E’ QUALCOSA CHE NON TORNA
E però c’è qualcosa che non torna in tutta questa vicenda, e non
torna in maniera così plateale che è uno scandalo che chi lo urla non
venga ascoltato. Può davvero essere tutto? Può davvero doversi chiudere
così la vicenda? Questa è una storia che inizia da lontano e che in
teoria è tutta da scrivere, ma ogni volta che qualcuno prende la penna
in mano continua a restare invischiato nella stessa vicenda, come se non
ci fosse altro modo, come se non avesse strumenti e mezzi per rompere
quella narrazione e cominciarne un’altra, inventare un altro mondo.
Nessuno resta mai davvero imprigionato in una storia, anche in questo
caso si tratta di una scelta: è possibile una Taranto senza Ilva? Forse
la risposta è che non è possibile questa Taranto senza Ilva, ma chi lo
ha detto che Taranto debba essere questa?
Prima che arrivasse l’acciaio, quando ai Tamburi c’erano le rose e la
gente ci andava a respirare l’aria buona per curare i problemi
respiratori, quando di sera si vedevano le lucciole, quella non era
Taranto? Quando nel mar Piccolo si coltivavano le ostriche, in che città
si stava? E l’obiezione è che non c’era lo sviluppo? Non c’era il
progresso? In quella città si produce con tecniche così vecchie e lo
stabilimento è così in perdita che è un miracolo se arriverà a diec’anni
di sopravvivenza da oggi. Se alle cifre che l’Ilva perde ogni giorno
(un milione di euro, ogni giorno) sommassimo quelle che di Sanità si
spende per curare o seppellire i tarantini, e se a queste aggiungessimo
quelle delle cinquecento vite spezzate da quando lo stabilimento è
aperto (sì, sono 500 i morti sul lavoro solo in acciaieria da quando
esiste), e facessimo una stima di quanto potrebbero portare alla città i
contributi di tutti i giovani che, appena possono, fuggono il più
lontano possibile, e al calcolo imponessimo anche queste cifre, quanto
colossale sarebbe l’investimento che si potrebbe fare per disegnare da
capo Taranto?
E ALLORA, IN TUTTA QUESTA VICENDA, L’UNICA SCELTA LIBERA È QUELLA OPERATA DAL GOVERNO IN QUESTI GIORNI.
L’unica verità che possiamo dire è questa: la soluzione attesa da chi
aveva promesso e si era ripromesso di mettere fine al massacro che da
decenni silenziosamente si è abbattuto sulla città, al solito meccanismo
che arricchisce pochi, ammazza molti e mette sotto ricatto tutti, è
stata semplicemente riconfermare quello che negli ultimi sei anni ogni
governo, di ogni forma e colore, ha perpetuato. Ogni cosa: il ricatto
occupazionale, nessun vincolo reale sulle bonifiche, nessun progetto di
riqualificazione, addirittura la vergognosa clausola di immunità penale
garantita dal governo Renzi a chiunque avesse ripreso lo stabilimento.
Nessuno chiedeva al governo di mettere per strada oltre 10000
famiglie: quello che si chiedeva era una soluzione politica che
spezzasse il ricatto tra lavoro e salute. Si chiedeva una visione ampia,
che rispondesse alle esigenze di una città senza condannarla a morte.
Si chiedeva una visione altra, che puntasse alla crescita della città
sviluppandola secondo le proprie capacità, mettendo fine a quarant’anni
di imposizione di una vocazione industriale che Taranto non ha avuto
mai. Si chiedeva di non sacrificare ancora una volta i tarantini
sull’altare degli interessi politici ed economici di chi se ne sta da
un’altra parte a ingrassare sul disastro. Si chiedeva di abbattere il
mostro, e non divenire suoi sodali.
Rita Cantalino per 'A Sud'
(by Nicola)
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