Ciò che stiamo sperimentando, al prezzo della sofferenza inaudita di
una parte significativa della popolazione, è il fatto che l’Occidente,
dal punto di vista sanitario, non ha strutture e risorse pubbliche
adeguate a questa epoca e a questa situazione. Come fare per entrare nel
XXI secolo anche dal punto di vista della salute pubblica? È questo che
gli occidentali devono capire e mettere in atto, in poche settimane, di
fronte a una pandemia che, nel momento in cui scriviamo, promette di
imperversare per il Pianeta, a causa delle ricorrenti ondate di
contaminazione e delle mutazioni del virus. Vediamo come e perché.
Il sistema sanitario occidentale e la pandemia
Dobbiamo innanzitutto ribadire, a rischio di creare sconcerto, che la
posizione di molti specialisti di salute pubblica è coerente su un
punto:
la pandemia Covid-19 sarebbe dovuta rimanere una epidemia più virale e
letale dell’influenza stagionale, con effetti lievi sulla grande
maggioranza della popolazione, e molto seri solo su una piccola frazione
di essa. Invece – se consideriamo in particolare alcuni Paesi europei e
gli Stati Uniti – lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha
trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia
dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi
economici.
Ciò che affermano gli esperti è che sarebbe stato relativamente facile frenare la pandemia praticando lo screening
sistematico delle persone infette sin dall’inizio dei primi casi;
monitorando i loro movimenti; ponendo in quarantena mirata le persone
coinvolte; distribuendo in modo massiccio mascherine all’intera
popolazione a rischio di contaminazione, per rallentare ulteriormente la
diffusione. Trasformare un sistema sanitario pubblico degno di questo
nome in un’industria medica in fase di privatizzazione si rivela un
problema grave. Ciò non impedisce a «eroi» e «santi» di continuare e
lavorare nella sanità pubblica: ne abbiamo una vivida rappresentazione
in questi giorni.
La diffusa privatizzazione dell’assistenza sanitaria ha portato le
nostre autorità a ignorare gli avvertimenti fatti dall’Organizzazione
mondiale della sanità (Oms) in merito ai mercati della fauna selvatica a
Wuhan. Non si tratta di dare lezioni ex post a nessuno, ma di comprendere i nostri errori per agire nel modo più intelligente possibile nel futuro.
Prevenire eventi come una pandemia non è redditizio a breve termine.
Pertanto, non ci siamo premuniti né di mascherine né di test da eseguire
massicciamente. E abbiamo ridotto la nostra capacità ospedaliera in
nome dell’ideologia dello smantellamento del servizio pubblico, che ora
si mostra per quella che è: un’ideologia che uccide. Non avendo mai
aderito a tale ideologia, e forti dell’esperienza dell’epidemia di Sars
del 2002, Paesi come la Corea del Sud e Taiwan hanno predisposto un
sistema di prevenzione estremamente efficace: lo screening
sistematico e il tracciamento, puntando alla quarantena e alla
collaborazione della popolazione adeguatamente informata e istruita,
facendole indossare le mascherine. Nessun confinamento. Il danno
economico risulta trascurabile.
Invece dello screening sistematico, noi occidentali abbiamo adottato una strategia antica, quella del confinamento,
a fronte di una frazione esigua di infetti, e di una parte ancora più
piccola tra questi che potrebbe avere gravi complicazioni. Ma, per
quanto piccola possa essere, quest’ultima frazione è ancora maggiore
dell’attuale capacità di assistenza dei nostri ospedali.
Non avendo altre strategie, è chiaro che il non fare nulla
equivarrebbe a condannare a morte centinaia di migliaia di cittadini,
come mostrano le proiezioni che circolano all’interno della comunità
degli epidemiologi, comprese quelle dell’Imperial College di Londra.
Anche se alcuni aspetti di questo documento sono discutibili, esso ha
il merito di chiarire che l’inazione è semplicemente criminale. È stata
questa prospettiva a indurre Emmanuel Macron in Francia e Boris Johnson
nel Regno Unito a rinunciare alla loro iniziale strategia di
«immunizzazione di gregge»
e a «svegliare» l’amministrazione Trump. Ma troppo tardi: questi Paesi
ora rischiano di pagare un prezzo pesantissimo in termini di vite umane
per il loro ritardo nell’intervenire adeguatamente.
Il ritorno dello Stato sociale
Il parziale isolamento dell’Europa ha ravvivato l’idea che il
capitalismo è sicuramente un sistema molto fragile, e così lo Stato
sociale è tornato di moda. In realtà, il difetto nel nostro sistema
economico ora rivelato dalla pandemia è purtroppo semplice: se una
persona infetta è in grado di infettarne molte altre in pochi giorni e
se la malattia ha una mortalità significativa, come nel caso di
Covid-19, nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità
pubblica forte e adeguata.
I lavoratori, anche quelli più in basso nella scala sociale, prima o
poi infetteranno i loro vicini, i loro capi, e gli stessi ministri alla
fine contrarranno il virus. Impossibile mantenere la finzione
antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e
nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico che la
accompagnano da quarant’anni: l’esternalità negativa indotta dal virus
sfida radicalmente l’idea di un sistema complesso modellato sul
volontarismo degli imprenditori «atomizzati».
La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti
connessi in una relazione di interdipendenza. E questa pandemia non è
affatto l’ultima, la «grande peste» che non tornerà per un altro secolo,
al contrario: il riscaldamento globale promette la moltiplicazione
delle pandemie tropicali, come affermano la Banca Mondiale e l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) da anni. E ci saranno altri coronavirus.
Senza un efficiente servizio sanitario pubblico, che consenta di
selezionare e curare tutti, non esiste più alcun sistema produttivo
praticabile durante un’epidemia da coronavirus. E questo per decenni.
L’appello lanciato il 12 marzo dal Mouvement des entreprises de France (Medef)
– il sindacato francese dei datori di lavoro – per «rendere il sistema
produttivo più competitivo» tradisce un profondo malinteso sulla
pandemia.
Come uscire dall’isolamento?
Se gli operatori sanitari si ammalano, c’è il rischio del collasso
del sistema ospedaliero, come sembra stia accadendo in Italia a Bergamo,
Brescia e, in misura minore, a Milano. È quindi necessario che lo Stato
promuova la diffusione di farmaci anti o retrovirali, in modo da
consentire molto rapidamente, ovunque, di alleviare il carico del
sistema ospedaliero sull’orlo del tracollo. E che i cittadini di tutti i
Paesi mostrino finalmente senso di responsabilità.
Perché il confinamento sia rigoroso, insieme ai noti comportamenti
elementari di igiene personale, tutti devono comprenderne il significato
e l’utilità. Il confinamento rallenta efficacemente la diffusione del
virus e – ripetiamolo –, in assenza di un sistema di screening,
rimane la strategia meno negativa a breve termine. Tuttavia, se ci
fermiamo a esso, diventa inutile: se usciamo dal confinamento, diciamo,
tra un mese, il virus sarà ancora in circolazione e causerà gli stessi
decessi di quelli che avrebbe causato oggi in assenza di contenimento.
Attendere, attraverso l’isolamento, che la popolazione si immunizzi –
più o meno, la stessa strategia inizialmente proposta da Johnson, ma «a
casa» – richiederebbe mesi di confinamento. Per capirlo, è sufficiente
tornare al parametro essenziale di una pandemia, R0, il «numero di
riproduzione di base», ossia il numero medio di infezioni secondarie
prodotte da ciascun individuo infetto. Finché R0 è maggiore di 1, vale a
dire fino a quando un individuo infetto può contagiare più di una
persona, il numero di persone infette aumenta in modo esponenziale. Se
lasciamo il contenimento senza ulteriori indugi prima che R0 scenda al
di sotto di 1, avremo quelle centinaia di migliaia di morti che la
pandemia ha minacciato di causare sin dall’inizio.
Tuttavia, affinché l’immunizzazione collettiva porti R0 al di sotto
di 1, è necessario immunizzare circa il 50% della popolazione, cosa che –
dato il tempo medio di incubazione (5 giorni) – richiederebbe
probabilmente più di 5 mesi di reclusione, se ipotizziamo che ci sia
oggi un milione di infetti. Un’opzione insostenibile in termini
economici, sociali e psicologici. È l’intero sistema di produzione dei
nostri Paesi che collasserebbe, a partire dal nostro sistema bancario,
che è estremamente fragile.
Per non parlare del fatto che, in questo momento, i più poveri tra
noi – rifugiati, persone di strada ecc. – sono costretti a morire non a
causa del virus, ma perché non possono sopravvivere senza una società
attiva. Senza dimenticare inoltre che non abbiamo alcuna garanzia che i
nostri circuiti di approvvigionamento alimentare possano resistere allo shock
della quarantena per un tempo così lungo: vogliamo costringere i
lavoratori a reddito medio/basso a mettere a rischio la propria vita per
continuare, per esempio, a trasportare il cibo per i dirigenti che
rimangono tranquillamente a casa o nella loro tenuta in campagna?
È quindi necessario organizzare una «prima» liberazione dal
contenimento, al più tardi tra qualche settimana. Prendere questo
rischio collettivamente ha senso però solo a una condizione: applicare,
questa volta, la strategia adottata in Corea del Sud e a Taiwan con il
massimo rigore. Il tempo che stiamo guadagnando chiudendoci in casa
dovrebbe servire per:
- riportare R0 (che probabilmente era circa 3 all’inizio del contagio) il più vicino possibile a 1;
- incoraggiare la riconversione di alcuni settori economici, per produrre in serie i ventilatori polmonari di cui ora hanno bisogno le terapie intensive per salvare vite umane;
- consentire ai laboratori occidentali di produrre subito apparecchiature e materiali di screening, mentre si organizzano per realizzare in poche settimane il sistema necessario. Al momento ci sono due enzimi, in particolare, le cui scorte sono molto insufficienti, e quindi limitano la nostra capacità di effettuare screening;
- produrre le mascherine di protezione, essenziali per frenare la diffusione del virus quando lasciamo la nostra casa.
Se porremo fine al nostro confinamento collettivo quando i nostri
mezzi di rilevazione non saranno pronti o mancheranno le mascherine,
correremo nuovamente il rischio di una tragedia. Sfortunatamente, oggi è
impossibile misurare R0. Pertanto, dobbiamo attendere fino a quando non
saremo organizzati per lo screening e pianificare l’uscita ordinata dalla quarantena il più rapidamente possibile.
Cosa succederà a quel punto? Coloro che vengono «liberati» devono essere sottoposti a screening
sistematico e indossare le mascherine per diverse settimane.
Altrimenti, l’uscita dal confinamento avrà un esito peggiore di quello
dell’inizio della pandemia. Coloro che sono ancora positivi verranno
quindi messi in quarantena, insieme al loro entourage. Altri
possono andare a lavorare o riposare altrove. I test dovranno continuare
per tutta l’estate per essere sicuri che il virus è stato sradicato
all’arrivo dell’autunno.
La salute come bene comune globale
La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un
capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi
pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e
consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. La deforestazione –
così come i mercati della fauna selvatica di Wuhan – ci mette in
contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del
permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come la
«spagnola» del 1918, l’antrace, ecc. Lo stesso allevamento intensivo
facilita la diffusione di epidemie.
A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e,
forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di
questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i
mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di
migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una
tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di
risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione
massiccia alle energie rinnovabili.
La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni
sociali. Oggi il capitalismo conosce «il prezzo di tutto e il valore di
niente», per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire
che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con
l’ambiente. Per privatizzarle, le distruggiamo e roviniamo le nostre
società, mentre mettiamo a rischio vite umane. Non siamo monadi isolate,
collegate solo da un astratto sistema di prezzi, ma esseri di carne
interdipendenti con gli altri e con il territorio. Questo è ciò che
dobbiamo imparare nuovamente. La salute di ciascuno riguarda tutti gli
altri. Anche per i più privilegiati, la privatizzazione dei sistemi
sanitari è un’opzione irrazionale: essi non possono restare totalmente
separati dagli altri; la malattia li raggiungerà sempre. La salute è un
bene comune globale e deve essere gestita come tale.
I «beni comuni», come li ha definiti in particolare l’economista
americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo
Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più
resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia.
La salute, ad esempio, deve essere trattata come una questione di
interesse collettivo, con modalità di intervento articolate e
stratificate. A livello locale, per esempio, le comunità possono
organizzarsi per reagire rapidamente, circoscrivendo i cluster
dei contagiati da Covid-19. A livello statale, è necessario un potente
servizio ospedaliero pubblico. A livello internazionale, le
raccomandazioni dell’Oms per contrastare una situazione di epidemia
devono diventare vincolanti. Pochi Paesi hanno seguito le
raccomandazioni dell’Oms prima e durante la crisi. Siamo più disposti ad
ascoltare i «consigli» del Fondo monetario internazionale (Fmi) che
quelli dell’Oms. Lo scenario attuale dimostra che abbiamo torto.
In questi giorni abbiamo assistito alla nascita di diversi «beni
comuni»: come quegli scienziati che, al di fuori di qualsiasi
piattaforma pubblica o privata, si sono coordinati spontaneamente
attraverso l’iniziativa OpenCovid19, per mettere in comune le informazioni sulle buone pratiche di screening dei virus.
Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la
cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare
istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre
interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.
Alcune organizzazioni del genere esistono già. La Drugs for Neglected Disease Initiative
(Dndi) è un eccellente esempio. Un organismo creato da alcuni medici
francesi 15 anni fa per il reperimento dei farmaci per le malattie rare o
dimenticate: una rete collaborativa di terze parti, in cui cooperano il
settore privato, quello pubblico e le Ong, che riesce a fare ciò che né
il settore farmaceutico privato, né gli Stati, né la società civile
possono fare da soli.
A livello individuale, poi, scopriamo la paura della scarsità dei
beni. Ciò può essere un aspetto positivo in questa crisi? Essa ci libera
dal narcisismo consumistico, dal «voglio tutto e subito». Ci riporta
all’essenziale, a ciò che conta davvero: la qualità delle relazioni
umane, la solidarietà. Ci ricorda anche quanto sia importante la natura
per la nostra salute mentale e fisica. Coloro che vivono rinchiusi in 15
metri quadrati a Parigi o a Milano lo sanno bene. Il razionamento
imposto su alcuni prodotti ci ricorda la limitatezza delle risorse.
Benvenuti in un mondo limitato! Per anni, i miliardi spesi per il marketing
ci hanno fatto pensare al nostro pianeta come a un gigantesco
supermercato, in cui tutto è a nostra disposizione a tempo
indeterminato. Ora proviamo brutalmente il senso della privazione. È
molto difficile per alcuni, ma può essere un’occasione di risparmio.
D’altra parte, anche un certo romanticismo «collapsologico»
sarà rapidamente mitigato dalla percezione concreta di cosa implichi,
nell’attuale situazione, la brutale difficoltà dell’economia:
disoccupazione, bancarotta, esistenze spezzate, morte, sofferenza
quotidiana di coloro in cui il virus lascerà tracce per tutta la vita.
Sulla scia dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco,
vogliamo sperare che questa pandemia sia un’opportunità per indirizzare
le nostre vite e le nostre istituzioni verso una felice sobrietà e verso
il rispetto per la finitudine del nostro mondo. Il momento è decisivo:
si può temere quella che Naomi Klein ha definito la «strategia dello shock».
Alcuni governi non devono, con il pretesto di sostenere le imprese,
indebolire ulteriormente i diritti dei lavoratori; o, per rafforzare
ulteriormente la sorveglianza della polizia sulle popolazioni, ridurre
permanentemente le libertà personali.
Nel frattempo, come si salva l’economia?
Proviamo a ipotizzare in questa situazione alcune possibili scelte di politica economica:
- Iniettare liquidità nell’economia reale. Alcuni economisti
tedeschi prevedono un calo del Pil in Germania del 9% nel 2020. Il dato è
ragionevole e ci sono pochi motivi per cui le cose possano andare
diversamente in Francia e, anche peggio, in Italia, Inghilterra,
Svizzera e Paesi Bassi. Ciò dovrebbe indurre Germania e Olanda – i
fautori della convinzione secondo la quale una maggiore austerità di
bilancio aggiusta l’economia, mentre la macroeconomia più elementare
dimostra il contrario – a rivedere i loro dogmi, se ancora l’escalation di vittime nei rispettivi Paesi non bastasse a far loro aprire gli occhi.
Negli Stati Uniti, Donald Trump e il suo segretario al Tesoro Steven Mnuchin propongono al Congresso di distribuire un assegno di 1.200 dollari a ciascun cittadino statunitense. Sono un po’ «soldi dall’elicottero» o, supponendo che la Banca centrale si occupi di questo problema monetario, «un quantitative easing per le persone». Misure che, eventualmente, avrebbero dovuto già essere state prese nel 2009. Possiamo anche vedere nell’iniziativa dell’amministrazione Trump l’abbozzo di un reddito minimo universale per tutti. Una proposta che è stata avanzata da molti per lungo tempo.
In Europa, la sospensione delle regole del Patto di stabilità, l’emissione di «obbligazioni corona» o l’attivazione di prestiti del Meccanismo europeo di stabilità sono tutte misure essenziali. - Creare posti di lavoro. Tuttavia, le iniziative appena
menzionate sono insufficienti. È necessario comprendere che il sistema
di produzione occidentale è, o sarà, parzialmente bloccato. A differenza
del crollo del mercato azionario del 1929 e della crisi dei mutui subprime
del 2008, questa nuova crisi colpisce innanzitutto l’economia reale.
Nella maggior parte delle aziende, al 30% dei dipendenti ai quali
venisse impedito di lavorare non corrisponderebbe il 30% in meno di
produzione, ma una produzione pari a zero. Se un’azienda inserita in una
catena del valore smette di produrre, l’intera catena viene interrotta.
Stiamo constatando che le catene di approvvigionamento just-in-time
(ossia senza scorte) ci rendono estremamente fragili. Pensiamo alla
filiera della produzione e della fornitura del cibo. Naturalmente,
alcuni governi sono pronti a inviare la polizia o l’esercito per
costringere i lavoratori a rischiare la propria vita per non
interrompere le catene di approvvigionamento. Le lavoratrici e i
lavoratori posti più in basso nella catena di produzione e
approvvigionamento sono i primi esposti e i primi sacrificati. Un’enorme
ammissione di impotenza!
Nella maggior parte dei Paesi costretti a praticare il contenimento, il sistema produttivo viene quindi parzialmente bloccato, o lo sarà presto. Le catene del valore globali stanno rallentando e alcune saranno tagliate. Il lavoro è involontariamente «in sciopero». Non siamo solo di fronte a una carenza keynesiana della domanda – perché chi ha i contanti non può spenderli, dal momento che deve rimanere a casa –, ma di fronte anche a una crisi dell’offerta. Questa pandemia ci introduce, dunque, in un tipo di crisi nuovo e senza precedenti, in cui si uniscono il calo della domanda e quello dell’offerta. In tale contesto, l’iniezione di liquidità è tanto necessaria quanto insufficiente. Essere appagati da questo equivarrebbe a dare le stampelle a qualcuno che ha appena perso le gambe…
Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro. L’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza non è neppure nuova: è stata studiata molto seriamente dall’economista britannico Tony Atkinson. Naturalmente, affinché ciò abbia un senso, dobbiamo seriamente pensare al tipo di settori industriali per i quali vogliamo favorire l’uscita dal tunnel. Questo discernimento dev’essere fatto in ciascun Paese, alla luce delle caratteristiche specifiche di ciascun tessuto economico.
È quindi legittimo e indispensabile che gli Stati occidentali, oggi come ieri, utilizzino una spesa in deficit per finanziare lo sforzo di ricostruzione del sistema produttivo che sarà necessario alla fine di questo lungo parto; e lo dovranno fare in modo acuto e selettivo, favorendo questo o quel settore. Ovviamente, il loro debito pubblico aumenterà. Ricordiamo che, durante la Seconda guerra mondiale, il deficit pubblico degli Stati Uniti raggiunse il 20% del Pil per diversi anni consecutivi. Ma il deficit sarebbe molto più grande in assenza di ingenti spese da parte dello Stato per salvare l’economia.
Possiamo anche notare che il piano di aggiustamento strutturale imposto alla Grecia alcuni anni orsono è stato assolutamente inutile: il rapporto debito pubblico/Pil di Atene ha raggiunto nel 2019 gli stessi livelli del 2010. In altre parole, l’austerità uccide – lo vediamo bene coi nostri occhi in questo momento, nei nostri reparti di rianimazione –, ma non risolve alcun problema macroeconomico.
Ricostruire e salvare la democrazia
A questo punto, un possibile errore sarebbe quello di apprezzare
l’efficacia dell’autoritarismo come soluzione. «E se le nostre
democrazie fossero scarsamente pronte? Troppo lente? Bloccate dalle
libertà individuali?». Questo ritornello risuonava già prima della
pandemia. Se consideriamo la Cina, la situazione sta sicuramente
migliorando, ma l’epidemia non è stata ancora sconfitta, neppure a
Wuhan. D’altra parte, è vero che a Pechino sono stati costruiti due
ospedali in pochi giorni e che il governo cinese non è in mano alla
lobby finanziaria, ma, per trarre i benefici di questi due punti a
favore, dovremmo forse rinunciare alla democrazia?
Una volta abbandonato il contenimento in maniera controllata,
un’altra pericolosa trappola sarebbe quella di limitarci a ripristinare
semplicemente il modello economico di ieri, accontentandoci di
migliorare in modo marginale il nostro sistema sanitario per far fronte
alla prossima pandemia. È urgente capire che la pandemia Covid-19 non
solo non è un cosiddetto «cigno nero» – era perfettamente prevedibile,
sebbene non sia stata affatto prevista dai mercati finanziari
onniscienti –, ma non è nemmeno uno «shock esogeno». Essa è una
delle inevitabili conseguenze dell’Antropocene. La distruzione
dell’ambiente che la nostra economia estrattiva ha esercitato per oltre
un secolo ha una radice comune con questa pandemia: siamo diventati la
specie dominante sulla Terra, e quindi siamo in grado di spezzare le
catene alimentari di tutti gli altri animali, ma siamo anche il miglior
veicolo per gli elementi patogeni.
In termini di evoluzione biologica, per un virus è molto più
«efficace» infettare gli esseri umani che la renna artica, già in
pericolo a causa del riscaldamento globale. E questo sarà sempre più
così, perché la crisi ecologica decimerà altre specie viventi. È
soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo
impegnati, a favorire la diffusione dei virus.
Oggi molti ne sono consapevoli: la crisi ecologica ci garantisce
pandemie ricorrenti. Accontentarsi di dotarsi di mascherine ed enzimi
per il prossimo futuro equivarrebbe a trattare solo il sintomo. Il male è
molto più profondo, ed è la sua radice che dev’essere medicata. La
ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal
tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che,
anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare
al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione
finanziaria. Abbiamo bisogno di una reindustrializzazione verde,
accompagnata da una relocalizzazione di tutte le nostre attività umane.
Ma, per il momento, e per accelerare la fine della crisi sanitaria, è
necessario fare ciò che è possibile, e dunque proseguire negli sforzi
per schermare e proteggere la popolazione.
Gaël Giraud, gesuita
Economista, direttore di ricerche al CNRS (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi
(by nicola)
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