Le eccezioni allo Stato di Diritto, cioè
gli stati di emergenza, devono prevedere norme puntuali e limitate nel
tempo. La separazione dei poteri, nelle democrazie moderne, vede deroghe
sempre maggiori: spesso gli Esecutivi si fanno parte attiva non solo
per applicare le norme eccezionali, ma anche per crearle. Il Partito
radicale crede invece fermamente che tali norme devono essere approvate
dal Parlamento: approvate, non ratificate dopo un esame puramente
formale, come avviene con i decreti-legge, né meramente comunicate, come
“generosamente” il Presidente del consiglio si offre di fare
trasmettendo ai Presidenti delle Camere i suoi DPCM.
Tra i due limiti che la Costituzione pone a salvaguardia dei diritti dei cittadini, quale garantisce di più: il giudice o la legge? L’articolo 13 della Costituzione, per non sbagliare, li prevede tutti e due. Da un lato il mandato di perquisizione o l’ordine di ispezione lo può emanare solo un giudice. Dall’altro lato il giudice può comprimere le libertà dei cittadini solo se la legge lo autorizza (e ciò solo perché vede probabile la scoperta di un reato).
Il nuovo decreto del Governo premette che l’articolo 16 della Costituzione consente limitazioni della libertà di circolazione per ragioni sanitarie: ma fotografare col drone o intercettare sul cellulare non è limitazione alla circolazione, è un rischio per la riservatezza ed un pericolo per la libertà di espressione del pensiero di tutti e di ciascuno. Quando tutto ciò ha luogo su impulso dei pubblici poteri, la Costituzione impone la “riserva di giurisdizione”.
Grazie alla scelta che il Governo fa, il giudice penale è espropriato, a favore del Prefetto. Con la sanzione amministrativa da 500 a 4000 euro, si finge di non accorgersi che queste misure sono in sé stesse afflittive: legittimano tutta una congerie di poteri che l’autorità amministrativa (e non il giudice) eserciterà per “tracciare” il cittadino, i suoi comportamenti, le sue abitudini. Si deve fare perché in Corea ha funzionato? Bene. Ma allora diteci quanto deve durare. Non con una promessa su Facebook ma con una legge che ponga almeno un termine finale a tutto questo e preveda la distruzione dei dati quando non serviranno più.
Perché poniamo queste questioni? Perché abbiamo sotto gli occhi alcuni precedenti, nessuno dei quali confortanti. L’articolo 41-bis entrò nell’ordinamento penitenziario come una legge emergenziale: nata nel 1992 per durare tre anni, fu prorogata fino al 2002 quando divenne legge ordinaria. Per non dire della legge sui terroristi pentiti che è ancora in vigore, anche se l’emergenza è cessata da un quarto di secolo.
Così facendo, rischiamo che tutte queste iper-regolazioni amministrative rimangano per sempre, un po’ come l’ora legale dopo la guerra mondiale. Non è questione se, nell’alternarsi delle bozze, ci sia o meno un termine finale per le misure: vorremmo evitare che – nel giorno della “stabilizzazione” dei poteri di precettazione, di requisizione e di tracciamento oggi introdotti – gli italiani li ricordassero come nella canzone, “Era il 38 luglio e faceva molto caldo”.
Tra i due limiti che la Costituzione pone a salvaguardia dei diritti dei cittadini, quale garantisce di più: il giudice o la legge? L’articolo 13 della Costituzione, per non sbagliare, li prevede tutti e due. Da un lato il mandato di perquisizione o l’ordine di ispezione lo può emanare solo un giudice. Dall’altro lato il giudice può comprimere le libertà dei cittadini solo se la legge lo autorizza (e ciò solo perché vede probabile la scoperta di un reato).
Il nuovo decreto del Governo premette che l’articolo 16 della Costituzione consente limitazioni della libertà di circolazione per ragioni sanitarie: ma fotografare col drone o intercettare sul cellulare non è limitazione alla circolazione, è un rischio per la riservatezza ed un pericolo per la libertà di espressione del pensiero di tutti e di ciascuno. Quando tutto ciò ha luogo su impulso dei pubblici poteri, la Costituzione impone la “riserva di giurisdizione”.
Grazie alla scelta che il Governo fa, il giudice penale è espropriato, a favore del Prefetto. Con la sanzione amministrativa da 500 a 4000 euro, si finge di non accorgersi che queste misure sono in sé stesse afflittive: legittimano tutta una congerie di poteri che l’autorità amministrativa (e non il giudice) eserciterà per “tracciare” il cittadino, i suoi comportamenti, le sue abitudini. Si deve fare perché in Corea ha funzionato? Bene. Ma allora diteci quanto deve durare. Non con una promessa su Facebook ma con una legge che ponga almeno un termine finale a tutto questo e preveda la distruzione dei dati quando non serviranno più.
Perché poniamo queste questioni? Perché abbiamo sotto gli occhi alcuni precedenti, nessuno dei quali confortanti. L’articolo 41-bis entrò nell’ordinamento penitenziario come una legge emergenziale: nata nel 1992 per durare tre anni, fu prorogata fino al 2002 quando divenne legge ordinaria. Per non dire della legge sui terroristi pentiti che è ancora in vigore, anche se l’emergenza è cessata da un quarto di secolo.
Così facendo, rischiamo che tutte queste iper-regolazioni amministrative rimangano per sempre, un po’ come l’ora legale dopo la guerra mondiale. Non è questione se, nell’alternarsi delle bozze, ci sia o meno un termine finale per le misure: vorremmo evitare che – nel giorno della “stabilizzazione” dei poteri di precettazione, di requisizione e di tracciamento oggi introdotti – gli italiani li ricordassero come nella canzone, “Era il 38 luglio e faceva molto caldo”.
Maurizio Turco, 'Left'
(by nicola)
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