L’Araba Fenice è un favoloso uccello: rinasce, mentre sembra stia
morendo nel fuoco, da un uovo generato dalle sue stesse ceneri. Una
favola che ricorda le sequenze del caso Contrada.
A beneficio dei disinformati, si rammenta che Bruno Contrada, un
alto funzionario di polizia, è stato condannato in ragione di numerosi
gravi fatti di costante supporto a Cosa Nostra e di molteplici specifici
favori a boss di assoluto rilievo. Fatti accertati con prove
granitiche: pentiti, ma anche documenti, intercettazioni e tantissimi
testimoni (fra cui Caponnetto, “padre” del pool antimafia, e il giudice
svizzero Del Ponte, insieme a poliziotti, carabinieri e vedove di
mafia).
Nel 2007 Contrada è condannato a 10 anni per concorso esterno in
associazione mafiosa (artt.110 e 416 bis CP). Ma dopo questa definitiva
pronunzia si ricomincia, con cadenze che ricordano appunto l’Araba
Fenice. E la Corte d’appello di Palermo (aprile 2020) arriva a liquidare
a Contrada la cospicua somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione.
Tutto nasce da un ricorso alla Cedu (Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo) e da una sua sentenza del 2015 che non pone minimamente in
discussione i fatti e la ricostruzione dei giudici italiani, e tuttavia
condanna lo Stato italiano a risarcire un danno in base all’assunto che
Contrada non poteva essere condannato.
Perché? Per il paradossale ragionamento che secondo la Cedu il
reato di concorso esterno in associazione mafiosa nasce soltanto nel
1994, in virtù di una sentenza della Cassazione (Demitry) che lo avrebbe
meglio definito dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali. Perciò
sarebbe, sempre secondo la Cedu, un reato di origine giurisprudenziale. E
poiché le gravi condotte di Contrada (realizzate dagli anni ‘70 al
1992) sono anteriori, egli non poteva sapere che erano illecite e nel
contempo esse non erano ancora riconducibili al reato di concorso
esterno.
Questo ragionamento è fragile per tutta una serie di motivi. A
parte l’assurdità di un poliziotto del livello di Contrada che non
poteva percepire l’illiceità delle sue condotte, la Cedu cade in un
grosso equivoco. La tesi di un reato che sarebbe stato creato ex novo
nel 1994 dall’interpretazione giurisprudenziale, si infrange contro la
logica. La quale insegna che la giurisprudenza può intervenire soltanto
se preesistono reati già codificati. Altrimenti, per usare
un’espressione volgare, non c’è trippa per gatti. La verità è che il
reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste nel nostro
codice penale da molto tempo, in forza di due articoli che
paradossalmente cita la stessa Cedu (p. 4) come pertinenti al caso, e
sono il 110 e il 416 bis C.P. Il 110 stabilisce la “pena per coloro che
concorrono nel reato” ed è norma di carattere generale, presente nel
codice fin dalla sua emanazione (1930). Per cui il concorso esterno non è
altro che la combinazione del 110 con l’articolo del codice che volta a
volta punisce questo o quel reato specifico. Per la mafia è il 416 bis,
inserito nel codice nel 1982 (dopo l’omicidio di dalla Chiesa,), che si
è aggiunto al 416 (associazione a delinquere) da sempre nel codice. In
altre parole, il concorso esterno in associazione mafiosa scaturisce
dalla combinazione di norme del codice operative ben prima che Contrada
ponesse in essere le sue condotte e ben prima della sentenza Demitry cui
si aggancia la Cedu per un’improponibile origine giurisprudenziale. Che
è poi ciò che affermano in modo inequivocabile sia la nostra Corte
costituzionale (poco dopo la Cedu, nel 2015) sia la Cassazione nel 2016,
smentendo i giudici di Strasburgo.
La Cedu poi scivola quando ignora del tutto come il concorso
esterno compaia addirittura in sentenze della Cassazione di Palermo del
1875, per essere ripreso in molti casi successivi fino al “maxi ter” di
Falcone e Borsellino (1987). In ogni caso, la sussistenza dei fatti
rilevati a carico di Contrada non è stata mai scalfita. Né dalla Cedu nè
dai giudici (di Caltanissetta e della Cassazione, di recente anche le
Sezioni Unite) che dopo la Cedu si sono occupati di Contrada, rigettando
ogni tentativo di ridiscuterne la condanna. Ciò vale anche per la Corte
di Palermo che ha deciso il risarcimento, ma nel contempo ha escluso
l’applicabilità dell’art. 643 cpp (riparazione dell’errore giudiziario),
ricordando anche che la Cassazione ha respinto in via definitiva un
ricorso per la revisione del giudicato penale di condanna. E che arriva
addirittura a citare - par. 5.2, p. 27 - la testimonianza di Gilda Zino,
vedova dell’ing. Roberto Parisi, secondo cui “il dott. Contrada mi
disse, con fermezza, che qualunque cosa io potessi sapere che riguardava
la morte di Roberto dovevo stare zitta, non parlarne con nessuno e
ricordarmi che avevo una figlia piccola... mi disse solo queste testuali
parole”.
Dunque, l’Araba Fenice nasce dalla Cedu e da una sua applicazione a
fini risarcitori che qui registriamo. Qui interessa soprattutto:
ribadire che i fatti sono stati tutti e sempre confermati da chi li ha
analizzati; smentire coloro che – contro la verità - parlano di un
“secondo Caso Tortora”, di “smacco” e “frana della tesi accusatoria”
della procura di Palermo; evidenziare l’ennesimo attacco livoroso a
quella procura che in certi anni ebbe il torto di applicare la legge
(vigente!) a tutti, senza accomodamenti per gli uomini infedeli degli
apparati statali. Perché la mafia è una cosa seria e va affrontata in
modo serio: non è una favola come l’Araba Fenice.
Da ultimo, alcuni interrogativi. La condanna di Contrada resta e si
fonda sulla prova provata di fatti gravi: agevolazione della latitanza
di vari boss, tra cui Riina; provvidenziali “soffiate” su indagini in
corso; interventi per il rilascio abusivo di patenti e porto d’armi;
ripetuti incontri con mafiosi. Ciò posto, è proponibile la domanda se
sia giusto oltre ogni dubbio gratificare il responsabile di quei fatti
con una barca di soldi? Non significa (al di là delle intenzioni)
svuotare la mafia della sua terribile pericolosità, che si nutre proprio
di relazioni esterne? E ancora: se la fonte di tutto è una sentenza
Cedu nata da un fraintendimento interpretativo, deve proprio la
giustizia italiana prestarvi comunque pedissequo ossequio? Oppure, viste
le tante illogicità e stranezze che accostano la vicenda giudiziaria
alla favola dell’Araba Fenice, ci sono spazi per rivolgersi alla Corte
Costituzionale (la stessa che ha smentito quel fraintendimento) per
verificare se sia rispettato il criterio di ragionevolezza che molte sue
decisioni si preoccupano di testare?
Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia - Micromega
(by nicola)
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