𝗜 𝗗𝗘𝗕𝗜𝗧𝗜 𝗗𝗘𝗜 𝗠𝗢𝗟𝗜𝗦𝗔𝗡𝗜? 𝗙𝗨𝗢𝗥𝗜 𝗕𝗜𝗟𝗔𝗡𝗖𝗜𝗢!
Le negazioni affermano.
E quella pronunciata dalla Corte dei Conti sul Ponte sullo Stretto afferma molto più di quanto sembri.
Non è un “no” tecnico, ma un “sì” alla ragione, alla misura, alla responsabilità.
È la voce di un Paese che — quando tutto tace — trova ancora un organo capace di dire:
“fermatevi, avete l’obbligo di rendere conto!”
Quel “no” afferma il limite, il senso, la responsabilità.
E svela la stupidità e la strafottenza di chi, nel tempo, ha trasformato un’idea di collegamento in un simbolo di potere, di spesa, di vanità personale —
per occultare problemi ben più urgenti e reali, che riguardano la collettività tutta, e in primis quella siciliana.
Per decenni hanno confuso la grandezza con lo sviluppo, dimenticando che la misura è la prima forma di intelligenza.
Il Ponte sullo Stretto non unisce: divide.
Divide chi sogna dal vero bisogno, chi governa dal buon senso, chi parla dal Paese reale.
Eppure, altrove, la modernità ha saputo scegliere diversamente.
Il tunnel sotto la Manica, ad esempio, è costato decine di miliardi e oggi fatica a ripagare la sua stessa esistenza.
Un’opera celebrata come trionfo tecnologico, ma che ha mostrato i limiti di un’idea ingegneristica scollegata dai flussi, dalle economie, dalle persone.
Un’opera che — come il Ponte sullo Stretto — unisce due sponde solo sulla carta, ma non nei fatti, non nelle vite.
E qualcuno potrebbe obiettare: “Ma in Cina queste opere le fanno, e pure più grandi!”
Vero. Ma non risulta che la Cina sia una democrazia.
Ed è proprio per questo che può farle: perché non deve rendere conto a nessuno.
L’Italia sì. E questo — nonostante tutto — resta il suo più grande valore.
L’Italia dovrebbe imparare da quegli errori.
Prima di costruire ponti tra i continenti, dovrebbe tornare a costruire ponti tra le comunità:
tra Nord e Sud, tra scuola e lavoro, tra legalità e progresso.
Dovrebbe riparare le aule che crollano, le strade che franano, gli ospedali che chiudono, le ferrovie che non abbiamo (parlo del Molise) — e mi fermo qui.
Perché la vera grande opera è quella che serve, non quella che stupisce.
E la Corte, dicendo “no”, ci ha ricordato che una negazione può affermare più di mille promesse.
Perché, in fondo, le negazioni affermano.
Affermano il principio più alto della nostra democrazia:
il bilanciamento tra poteri, tra controllori e controllati.
Affermano che nessuno, nemmeno il governo, è al di sopra della legge.
Affermano che la spesa pubblica non è arbitrio, ma responsabilità.
È la Costituzione, ancora una volta, a ricordarcelo.
Gli articoli 97 e 100 parlano chiaro: l’amministrazione pubblica deve agire secondo i principi di buon andamento e imparzialità,
e la Corte dei Conti vigila perché il denaro dei cittadini non diventi strumento di consenso, ma garanzia di giustizia.
Oggi, alcuni titoli parlano di decisione “incostituzionale”.
Forse non nel linguaggio tecnico, ma nel senso profondo sì:
perché ciò che la Corte ha difeso non è solo la legalità degli atti, ma la legalità della coscienza civile.
Non serve pronunciare la parola “incostituzionale” quando la Costituzione la si onora con i fatti.
Quel “no” non è un ostacolo: è l’unico vero ponte.
Un ponte che collega la coscienza alla legge, la misura al potere, la democrazia alla sua stessa ragione d’essere.
La Corte dei Conti ha fermato lo sviluppo — quello utile a pochi —
non il progresso, quello che serve a far star bene le persone.
(✍️ by nicola)
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