Dieci anni fa, nel 2009, la dottoressa Gabriella Nuzzi, pubblico ministero, scrive una lettera
al presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati in cui si congeda
dal sindacato delle toghe per quanto profondamente addolorata. Il
presidente all'epoca è Luca Palamara.
Lei è magistrato a
Salerno e viene trasferita d'ufficio dal Consiglio Superiore della
Magistratura – su richiesta del ministro dell'Interno Angelino Alfano –
per aver indagato sul malaffare giudiziario di Catanzaro. Cosa era
successo e perché questa lettera?
Le mie dimissioni
dall’ANM nel gennaio 2009 seguirono alla decisione del CSM di privare me
e i miei colleghi della Procura di Salerno delle funzioni inquirenti,
mentre eravamo impegnati ad accertare, su denuncia dell’allora pm Luigi
De Magistris, gravi ipotesi di reato coinvolgenti magistrati di
Catanzaro, politici, pubblici amministratori, imprenditori.
La
decisione fu salutata con grande soddisfazione da Palamara, punta di
diamante della corrente Unicost e presidente dell’ANM, che, con il
plauso di AreaDG e Magistratura Indipendente, commentò: “Il sistema ha
dimostrato di avere gli anticorpi”.
Non aveva capito -né lui né
il “sistema” di cui si faceva garante- che il velo si era squarciato e
il tempo avrebbe fatto la sua parte.
La vicenda aveva avuto
inizio un anno e mezzo prima, nel settembre 2007, quando, rientrata in
servizio dopo il congedo per maternità, avevo trovato sul tavolo del mio
ufficio un mucchio di fascicoli con annotato il nome di Luigi De
Magistris come indagato. Si trattava di numerosi esposti a suo carico
per presunte illegittimità nell’esercizio delle sue funzioni di Pubblico
Ministero a Catanzaro, provenienti da politici, avvocati, magistrati
dei distretti di Potenza e Catanzaro. Le denunce, accompagnate da
interrogazioni parlamentari e segnalazioni disciplinari, miravano, in
sostanza, a giustificare la sottrazione a De Magistris, che ne era il
titolare, di tre importanti inchieste, Poseidone, Why not e Toghe Lucane, da parte del Procuratore e del Procuratore Generale di Catanzaro.
In quel momento non potevo immaginare ciò di cui, invece, mi resi conto
alcuni mesi più tardi, ovvero che la Procura di Salerno costituiva un
ingranaggio essenziale di un “sistema” funzionale a dare a De Magistris
il colpo di grazia: sarebbe, infatti, bastato rinviarlo a giudizio per
uno solo di quei reati per delegittimarne definitivamente le inchieste e
disintegrare la sua vita personale e professionale.
Il “sistema”, però, aveva fatto male i suoi conti.
Organizzai il mio lavoro e iniziai a studiare gli atti. Si unì a me il
collega Dionigio Verasani. Dopo alcuni mesi di indagini, giungemmo alla
conclusione che le tre inchieste Poseidone, Why not e Toghe Lucane
erano state oggetto di illecite interferenze da parte dei capi e che
gli esiti delle indagini avevano esposto De Magistris a una serie di
azioni ostative e ritorsive, esterne ed interne agli ambiti giudiziari,
finalizzate a determinarne il definitivo allontanamento dalla
magistratura.
Nel giugno 2008, le accuse a carico di De Magistris furono archiviate; da indagato assunse la veste di persona offesa.
Gli organi di autogoverno e vigilanza (CSM, Procura Generale della
Cassazione, Ministero della Giustizia), sebbene da noi informati sin dal
dicembre 2007 della difficile situazione vissuta da De Magistris e del
rifiuto frattanto opposto dal Procuratore e dal Procuratore Generale di
Catanzaro alle richieste di esibizione degli atti delle inchieste Poseidone e Why Not,
necessari per il riscontro dei fatti da lui narrati, ne decretarono il
trasferimento disciplinare al Tribunale di Napoli, privandolo delle
funzioni inquirenti.
Cosa successe in seguito?
Nel dicembre 2008, dopo nove richieste e reiterate sollecitazioni agli
organi di vigilanza tutte inevase, il mio ufficio decise di intervenire
nei confronti dei magistrati di Catanzaro indagati per corruzione e
abuso d’ufficio e procedere al sequestro di copia degli atti delle
inchieste Poseidone e Why Not individuati come necessari alle indagini.
Le operazioni di perquisizione e sequestro furono eseguite il 2
dicembre 2008 nel pieno rispetto delle norme -come fu in seguito
appurato- ma la reazione fu violentissima e imprevedibile.
Due
giorni dopo, infatti, il 4 dicembre 2008, io e miei colleghi ci vedemmo
recapitare in ufficio un’informazione di garanzia firmata dai nostri
indagati. L’accusa mossa a me, Verasani e al procuratore Luigi Apicella
era di avere quali “promotori” e “organizzatori”, abusato delle funzioni
di Pubblico Ministero “al fine di occultare i reati perseguiti nel
procedimento Why Not”, disponendo il sequestro degli atti con un decreto
“abnorme” finalizzato a sottrarre l’inchiesta ai magistrati di
Catanzaro, così “arrecando un danno ingiusto” a costoro, “alla Regione
Calabria e all’intera collettività del distretto”, nonché
“perseguendo l’interesse privatistico e utilitaristico connesso alla
artificiosa delineazione di un complotto a livello istituzionale contro
il dottor De Magistris, tra l’altro, ad opera dei magistrati di
Catanzaro”.
Sulla base di queste imputazioni, i magistrati di Catanzaro, indagati dalla Procura di Salerno, disposero il contro-sequestro degli atti dei procedimenti Poseidone e Why Not, sottraendoli così ai loro indagatori.
Un comportamento abnorme, che, anziché indurre le istituzioni a
intervenire a nostra tutela, generò il pretesto per eliminarci,
sfruttando quell’enorme fandonia nota come “la guerra tra procure”.
Nel giro di pochi giorni, dopo un’audizione dinanzi al plenum
del CSM durata fino a notte fonda, i miei colleghi ed io fummo
sottoposti, prima, a procedura di incompatibilità ambientale, poi, a
procedura cautelare d’urgenza. Iniziarono le ispezioni ministeriali. Il
Procuratore Generale della Cassazione avviò l’azione disciplinare, come
pure il ministro della Giustizia Alfano.
Fummo definiti “eversivi”, il nostro agire “finalizzato alla destabilizzazione e all’eversione dell’istituzione dello Stato”.
E arriviamo così alla sua lettera.
Il 19 gennaio 2009 la Sezione Disciplinare del CSM dispose il nostro
trasferimento cautelare in via d’urgenza di sede e funzioni, con
l’appoggio dell’ANM, di cui erano presidente e segretario,
rispettivamente, Luca Palamara di Unicost e Giuseppe Cascini di AreaDG.
A febbraio 2009 il procedimento penale iscritto a nostro carico dal
Procuratore Generale di Catanzaro fu trasferito alla Procura di Roma e
giunse nelle mani del Procuratore Aggiunto Achille Toro (condannato a
due anni nell’inchiesta Grandi Eventi) che, invece di ascoltare le
nostre ragioni, diede mandato ai Carabinieri del Ros di acquisire i
tabulati telefonici di De Magistris e miei. L’obiettivo era tentare di
accreditare una campagna diffamatoria, scaturita da interrogazioni di
parlamentari del centrodestra, circa l’esistenza di una relazione
personale nata durante le indagini tra me e De Magistris e finalizzata a
distruggere la nostra reputazione personale e professionale, oltre che
le nostre vite familiari. I contatti, però, erano stati preventivamente
autorizzati dall’Ufficio, noti ai Carabinieri nostri collaboratori e
dettati esclusivamente da ragioni d’ufficio, così che il tentativo di
infangarmi fallì miseramente con un’azione di risarcimento dei danni,
che mi vide vittoriosa.
Nel frattempo, a seguito del mio
trasferimento a Latina, gli atti del procedimento penale furono
trasferiti per competenza alla Procura di Perugia, che, svolti i dovuti
accertamenti, archiviò in breve tempo le nostre posizioni.
Ciò
nonostante, il 19 ottobre 2009 la Sezione Disciplinare del CSM
presieduta da Nicola Mancino pronunciò la nostra condanna disciplinare e
io, che ero il magistrato più giovane, fui sanzionata più duramente degli altri.
Come mai tanto accanimento nei suoi confronti?
La ragione non è aver scritto un decreto di sequestro “troppo lungo” né
di avervi trasfuso “inopportunamente” i nominativi di soggetti che,
tempo dopo, all’esito di altre inchieste, sono stati colpiti da condanne
per corruzione e altri gravi reati. Il vero motivo è aver scoperto il
sistema istituzionalizzato di annientamento dei magistrati ritenuti
scomodi e, soprattutto, di averlo messo nero su bianco in provvedimenti e
denunce alle autorità competenti.
Eppure, all’epoca, nessun
esponente della magistratura associata gridò allo scandalo. Non solo le
tre correnti non levarono una parola in nostra difesa, ma lasciarono che
“il sistema” seguisse il suo corso, senza alcuno scrupolo, in cambio
della possibilità di negoziare liberamente carriere e promozioni.
Un atto di convenienza della peggiore politica, di cui oggi l’intera
magistratura paga le conseguenze. E il mio pensiero va ai giovani
magistrati, soprattutto quelli di prima nomina designati nelle sedi ad
alta densità mafiosa.
Oggi che situazione professionale e personale vive? Cosa ha conservato della sua esperienza?
E’ inutile dire che non è stato facile resistere a tanta violenza e ai
suoi strascichi. Ho trovato sostegno nei familiari, negli amici più cari
e in tantissime persone, associazioni, gruppi che mi hanno scritto,
infondendomi fiducia e coraggio. Lungo il mio percorso, a Latina come a
Napoli, dove attualmente esercito le funzioni di giudice, ho avuto la
fortuna di incontrare colleghi di grande livello, che mi hanno
apprezzato e con cui ho instaurato legami fortissimi sul piano umano e
professionale. Molti di loro non fanno parte della magistratura
associata, altri ne sono attivisti, segno che anche nelle correnti ci
sono forze sane che possono agire da leva per una rinascita culturale
dell’associazionismo. E’ difficile per chi ha subito una violenza istituzionale
riacquistare fiducia, ma l’isolamento è ancor più dannoso delle
sanzioni disciplinari: è un favore che si concede ai propri detrattori.
Queste riflessioni mi hanno indotto pian piano a rivalutare il momento
partecipativo. Osservo più da vicino e valuto in base a fatti e
comportamenti.
Esiste un meccanismo di controllo dei magistrati e come funziona?
In Italia il controllo della magistratura e delle forze dell’ordine
costituisce da sempre un obiettivo primario della criminalità
organizzata, in tutte le sue variegate conformazioni.
Dopo
l’epoca stragista e le inchieste milanesi sulla corruzione del sistema
politico-amministrativo della prima e seconda Repubblica, si è
progressivamente affermata una nuova metodologia d’intervento erosiva
dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici.
Per un verso,
le riforme legislative su illeciti disciplinari e responsabilità civile
hanno introdotto strumenti che si prestano a essere utilizzati come veri
e propri grimaldelli contro i magistrati scomodi. Il meccanismo -una
costante delle indagini ad alto impatto istituzionale- è sempre
identico: “fughe di notizie” alla vigilia e in coincidenza di importanti
atti investigativi, con conseguenti denunce contro il magistrato
inquirente da parte degli indagati o dei loro difensori; interrogazioni
parlamentari e campagne diffamatorie sulla stampa; apertura di
procedimenti penali, disciplinari e paradisciplinari; trasferimenti e
sanzioni che compromettono per sempre la vita professionale del
magistrato.
Altra strategia è quella che passa attraverso le
nomine ai posti dirigenziali, da cui dipendono l’organizzazione dei
carichi di lavoro dei magistrati, i pareri di professionalità, le
segnalazioni disciplinari e così via. La degenerazione del correntismo
giudiziario e il ricorso a criteri eccessivamente discrezionali da parte
del CSM nell’esercizio dell’autogoverno hanno aperto il varco
alla “contrattazione” delle nomine, portando talvolta ai vertici degli
uffici giudiziari soggetti piegati a logiche propriamente politiche.
E’ evidente come questo modus procedendi abbia reso vulnerabile l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, favorendo collusioni e prassi corruttive.
La sua vicenda è particolarmente significativa, tanto più oggi in relazione a quanto sta accadendo.
Il caso Palamara e dei cinque togati del CSM è emblematico del delirio di onnipotenza che avvolge il nostro autogoverno.
Questa volta, a differenza di quanto accadde dieci anni fa, ANM e CSM sono intervenuti con i proclami: siamo tutti chiamati a porci interrogativi morali e a riflettere sulle degenerazioni del carrierismo.
Direi una reazione dovuta, necessitata dall’eccezionale gravità delle
rivelazioni e del misero spaccato che ne è emerso. Sorprende che ci sia
voluto un trojan nel cellulare di Palamara (peraltro attivo
solo pochi giorni) per “scandalizzare” le correnti e porle di fronte
alle macerie di un disastro che, assai colpevolmente, hanno contribuito a
provocare.
Forse è già tardi, ma la nostra istituzione è robusta: oggi siamo tutti chiamati a collaborare per risollevarne le sorti.
La
magistratura, infatti, vive giorni drammatici sia al suo interno, per
via delle lacerazioni, sia all’esterno, a causa della messa in
discussione della sua credibilità. Che fare?
Il primo
passo è lavorare a una rinascita culturale e a un autentico rinnovamento
dell’attività associativa, che ripudi le logiche dell’appartenenza, del carrierismo, del mercanteggiare,
e ponga al centro dei propri interessi la tutela dell’indipendenza del
magistrato e i temi della giustizia, ciò di cui hanno bisogno i
cittadini.
E’ un processo interiore, di lenta maturazione, che
non può prescindere da una profonda e attenta autocritica degli errori
compiuti, per emendare i quali non bastano gli appelli.
Il
Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di non
sciogliere il CSM, dichiarandolo un provvedimento inutile se non
cambiano le regole del gioco.
La decisione del Capo
dello Stato di non decretare l’immediato scioglimento del Consiglio
Superiore e indire a breve nuove elezioni suppletive è l’unica soluzione
realisticamente percorribile. Nel frattempo occorrono regole in grado
di recidere il circuito vizioso che consente a chi ricopre incarichi
associativi di sedere automaticamente negli organi di autogoverno (CSM e
consigli giudiziari) o di assumere incarichi politico-amministrativi
per poi rientrare a esercitare la giurisdizione in posti dirigenziali.
Regole che prevedano dimissioni obbligatorie in caso d’incarichi
politici; che assicurino una paritaria presenza femminile nel Consiglio
Superiore della Magistratura; che delimitino la discrezionalità
nell’esercizio dell’autogoverno, valorizzino il merito professionale e
introducano correttivi a garanzia dell’imparzialità nelle procedure
riguardanti la progressione in carriera del magistrato, assicurando
valutazioni di professionalità effettive e trasparenza nelle procedure
di accesso alla magistratura e nomina agli uffici dirigenziali.
Cosa ci insegna la Costituzione?
Che l’autonomia e l’indipendenza del magistrato non sono un privilegio
di categoria. Ma un baluardo del nostro Stato di diritto, posto a
garanzia del principio dell’eguaglianza dei cittadini nell’esercizio
della giurisdizione. Dico cose scontate, ma forse è il caso di ripeterlo
tutti, come un mantra.
Intervista a Gabriella Nuzzi di Rossella Guadagnini, fonte 'Micromega'
(by Nicola)
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