I Beni comuni, la loro definizione
teorica e l’individuazione pratica, catalizzano da anni l’attenzione
delle comunità e di autorevoli giuristi. Le riflessioni sono
polarizzate dalla contrapposizione tra accademici teorici, come Alberto
Lucarelli e Ugo Mattei, già componenti della commissione Rodotà, che
prospettano una riforma legislativa; e altre personalità scientifiche
di rilievo, che bocciano la proposta, come da ultimo Paolo Maddalena.
Attenzione! Le scuole di pensiero sono entrambe orientate al
riconoscimento del valore dei cosiddetti beni comuni, ma con approccio
distante per metodo, forme e contenuti.
È stata di recente proposta una bozza che va analizzata, come le argomentazioni delle parti, per comprendere il divario tra
le posizioni. Il testo affida al governo una importante modifica del
codice civile chiedendo d’introdurre la categoria dei cosiddetti beni
comuni, già diversamente nominati e disciplinati dalla legislazione
vigente. Qui nasce la critica di chi assume che la proposta si
limiterebbe a rinominare le categorie esistenti
introducendo, quale unico elemento concreto di novità, un
affievolimento della forza del demanio a detrimento degli interessi
della collettività. Una polemica sorta anche dalla convinzione che il
testo sia semplicemente un’idea trasferita dall’alta burocrazia
finanziaria ad un gruppo di professionisti
avvezzi all’elaborazione dottrinaria, più che all’applicazione
sostanziale del diritto, resisi strumenti inconsapevoli della
costruzione di una norma finalizzata alle dismissioni del patrimonio
pubblico. L’obiettivo dichiarato sarebbe, pertanto, tradito dalla
finalità concrete.
Se da
una parte il collegio degli accademici resiste e fa della bozza una
proposta di legge d’iniziativa popolare, la parte avversa invita ad
incontrarsi, per elaborare un nuovo testo, che punti alla sostanza dei
beni comuni. Invero, il testo proposto ha origine in un’iniziativa che
risale al 2003 da parte di studiosi del ministero delle Finanze
orientati dalla volontà di costruire una norma “che fosse più al passo
con i tempi e in grado di definire criteri generali e direttive sulla
gestione e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle
funzioni pubbliche”. L’attività fu riavviata
nel 2007 dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, che
istituì una commissione sui beni pubblici affidandone la presidenza a
Stefano Rodotà. Il ministro intese raccogliere le sollecitazioni
provenienti da un gruppo di esperti, in occasione di una Giornata di
studio svoltasi all’Accademia nazionale dei
Lincei, che chiedevano di completare il lavoro avviato. Le attività
della commissione si svolsero nelle 11 sedute collegiali, che
consentirono d’individuare i principi ispiratori della riforma. Un
disegno di legge fu presentato poi al Senato (il numero 2031 del 2010,
primi firmatari Casson, Finocchiaro, Zanda) e la proposta di legge sui
beni comuni di cui discutiamo ne ricalca il testo.
Da qui hanno origine le recriminazioni dei
Movimenti popolari, in particolare il Forum Italiano dei Movimenti per
l’Acqua, che rifiuta di aderire alla campagna di raccolta firme di una
legge preconfezionata da un gruppo ristretto e istituzionale, poiché
considerata priva del requisito tipico di una legge di iniziativa
popolare, che è la elaborazione partecipata e democratica del testo.
Nei contenuti la bozza in esame s’ispira chiaramente a una filosofia
superata dalle recenti elaborazioni
dottrinarie e dalla giurisprudenza. Nella modernità, la costruzione
dei nuovi diritti è necessariamente fondata su un approccio
ecocentrico, che vede l’uomo come parte integrante dell’ecosistema;
vien riconosciuta soggettività giuridica e pari dignità a ogni elemento
della natura. La scienza dimostra che
l’ambiente è un bene organizzato in maniera sistemica, che esiste con
l’uomo che è uno degli elementi del complesso organismo che chiamiamo
Gaia. L’uomo non è quindi più il centro dell’universo e la natura non è
più un insieme di beni utili all’uomo.
È evidente la distanza tra il pensiero più recente e
la proposta di legge che tenta di disciplinare una soluzione di
gestione dei cosiddetti beni comuni, quali oggetti del diritto al
servizio dell’uomo. Ma il grande merito di tutti i giuristi impegnati
sulla proposta di riforma sta nell’aver ravvivato la discussione su un
tema di grande valore. I cambiamenti sono il
frutto delle sperimentazioni continue, della lotta per le proprie idee e
del coraggio di abbandonarle quando sorgano dubbi e nuove prospettive.
Dal confronto può nascere la possibilità di una sintesi. Il dibattito,
pertanto, va tenuto aperto creando un tavolo di confronto e di
lavoro per la costruzione di una riforma condivisa e partecipata, che
punti diritto al bene comune.
Fonte: 'Il Dubbio'
(by Nicola)
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