Pesaro, 22 dicembre 2016 - Smog, fumi industriali da combustione ad alte temperature che prevede, nella produzione, impiego massiccio di silicio sono fonti di inquinamento da nanoparticelle.
Per capire che vivere in ambienti del genere possa essere insalubre
basta il buon senso, ma fino a quanto l’inquinamento da nanoparticelle
possa avere un ruolo nella malattia l’ha scoperto un team
interdisciplinare composto da medici, biologi, farmacisti, bioingegneri e
ambientalisti coordinato dall’ematologo Giuseppe Visani, direttore del Centro trapianti Midollo Osseo dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro e dall’ingegnere biomedico Antonietta Morena Gatti del laboratorio Nanodiagnostics di Modena.
Lo studio che prende in esame un campione di venti persone, tutte affette da leucemia acuta mieloide e venti persone sane, ha dimostrato che nel sangue delle persone leucemiche la presenza di nanoparticelle in forma di metalli pesanti è significativamente più elevato.
Di quanto? «Facciamo un esempio. Davanti ad una nanoparticella di
acciaio presente nel sangue di un organismo sano – spiega Gatti – quelle
rinvenute nel corpo di un soggetto, affetto dal particolare tipo di
leucemia osservata, è risultata anche cento volte maggiore».
Quindi? «La nostra scoperta – spiega Visani – non dice che
l’inquinamento da metalli pesanti sia la causa della leucemia mieloide
acuta. Dimostra, invece, che tutti i pazienti affetti dalla malattia
sono stati esposti a contaminazione ambientale. Ed è la
prima volta, in assoluto, che si scopre una compromissione ambientale
sotto forma di nanoparticelle presenti nel sangue di pazienti affetti da
leucemia acuta mieloide». La ricerca, fatta con il contributo del
Dipartimento di Scienze biomolecolari dell’Università di Urbino,
dell’Azienda ospedaliera Marche Nord, dell’Agenzia per la protezione
ambientale delle Marche, con il sostegno dell’Ail Pesaro è stata
pubblicata dalla rivista internazionale Leukemia Research.
Ma perché proprio la leucemia acuta mieloide? «Per
ristringere il campo di analisi – osserva Visani –, ma anche perché si
tratta di una forma frequente in Italia che colpisce a tutte le età.
Ogni anno ci sono almeno 3000 nuovi casi». Qual è il significato di
questa scoperta, è presto detto. «Lo studio ha messo in luce una nuova
tecnica diagnostica che prende in considerazione l’ambiente esterno
quale fattore capace di incidere sulla malattia. In particolare grazie a
tecniche di microscopia elettronica estremamente sensibili quelle
indebite presenze possono essere identificate nel corpo umano (sangue e
midollo osseo) e così dimostrare l’esposizione a contaminazioni
ambientali». Infatti il corpo umano non può produrre
particelle del genere: può solo averle assunte dall’esterno. Inoltre, il
team di ricercatori ha verificato che il corpo, non riconoscendo come
proprie le nanoparticelle di metalli pesanti, reagisce attivando il
sistema di difesa. «Gli studi evidenziano – conclude Visani – che le le
particelle identificate vengono ricoperte da una specie di “anello di
Saturno proteico” (protein-corona), cioè composto da proteine del sangue le quali, denaturandosi, attivano il sistema immunitario».
Alla scoperta Visani e Gatti sono arrivati agendo in sinergia con il
team di specialisti e scienziati del Dipartimento di Scienze
Biomolecolare dell’Università di Urbino (Uniurb (Gobbi, Manti, Valenti,
Papa Rocchi, Canonico); di Nanodiagnostics di Modena (Montanari,
Capitani, Nitu); di Aormn e Ail Pesaro (Lo Scocco, Isidori, Gabucci); di
Arpam (Ammazzalorso, Benini e Pizzagalli). «E’ il contatto profondo con questi materiali non biocompatibili e a volte chimicamente tossici – osserva Pietro Gobbi, professore dell’Università di Urbino – il fattore di rischio che potrebbe contribuire al processo della malattia».
Ma per definire questo serviranno ulteriori studi. Sui possibili
effetti sociali sono Gatti e Visani a rispondere: «Le nanoparticelle
sono nel pulviscolo ambientale che respiriamo o che ingeriamo con cibi
contaminati. I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità registrano
l’inquinamento da particelle fini, pari a Pm 2.5, presenti ovunque. La
Pianura Padana è particolarmente interessata dal fenomeno. Quindi è una
scoperta che coinvolge tutti e sprona la ricerca verso una maggiore considerazione dei fattori di rischio ambientale sia nella diagnosi delle
malattie e che nella prevenzione».
Fonte: Il Resto del Carlino
(by Nicola)
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