La solitudine
istituzionale sancisce una rottura nel rapporto
istituzioni-cittadino. Il legame dovrebbe
essere annodato da centri per l’impiego funzionanti, da centri per
l’orientamento lavorativo dei disoccupati, da progetti ad hoc per i
senza lavoro e così via che, grazie ad uno svolgimento efficace del
proprio compito, dovrebbero riuscire a mantenere integro il legame di
fiducia col cittadino. E invece cosa accade? Che il 64,46 % dei
rispondenti dichiara di essersi sempre sentito abbandonato dalle
istituzioni. Da notare che questa percentuale è sostanzialmente
invariata rispetto a quella del 2013. Diversamente, il 17,65% (13%
nel 2013) sostiene di non essersi trovato mai in una situazione di
abbandono istituzionale.
La solitudine
sociale è quella indotta da amici, conoscenti o anche parenti
allorché assumono comportamenti dissociati dalle reali vicende che
colpiscono il “proprio vicino“, con un coinvolgimento che è
impercettibile se commisurato alla gravità della situazione in
essere. Questi soggetti albergano l’area del “supporto e
dell’aiuto” e pertanto il loro essere partecipi dovrebbe
manifestarsi nell’atto del “consigliare” per indicare qualche
via d’uscita o anche qualche soluzione.
Il 45,59% dei
rispondenti (51% nel 2013) dichiara di essersi “spesso” sentito
abbandonato o non ascoltato, il 25% dichiara di essersi sempre
sentito abbandonato, mentre il 29,41% dichiara di non essersi trovata
praticamente mai in condizione di solitudine sociale. Che è un
valore soddisfacente se si pensa che per quasi un terzo dei
rispondenti ancora si può far affidamento su una rete sociale
allargata che magari non fornisce soluzioni ma aiuta nel tentativo di
elaborarne qualcuna. Nel complesso una situazione molto vicina a
quella del 2013.
La solitudine da
parte della famiglia è quella che nel contesto culturale
italiano ferisce più d’altri, anche perché ad essa è affidata in
gran parte la tenuta psicologica del soggetto soprattutto quando si
trova sotto sforzo. Non solo, ma dovrebbe essere un alimentatore di
resilienza individuale, ovvero di quella
energia necessaria a far fronte in maniera positiva agli eventi
traumatici, magari continuando a tenere organizzata la propria vita
(dinanzi alle difficoltà), restando lucidi e ricettivi di fronte
alle opportunità positive che via via si possono presentare, senza
per tutto ciò alienare la propria identità.
Secondo il 54,9 %
dei rispondenti (53,00% nel 2013 ì) non ci sono state mai
incomprensioni tali da compromettere seriamente la funzione cui la
famiglia è preposta. Un dato che è certamente positivo ma che
potrebbe apparire in qualche modo preoccupante se si guarda al suo
complementare, cioè il restante
45,1%. Dove comunque fratture si saranno aperte, storie nuove -non
proprio da commedia brillante- saranno nate.
Insomma, un sistema
di protezione sociale che non ha funzionato e che sembra inadeguato,
con l’effetto di far gravare in capo agli interessati un disagio
ulteriore decisamente paralizzante. Un sistema di protezione sociale
che, caso più unico che raro, sembra basarsi su tre assi: conoscenti
in primis, quindi
famiglia e per ultimo istituzioni.
Che riflessioni
fare? Potrebbe venire immediato dire: “meno male che c’è la
famiglia”. Ma per lo stesso motivo potrebbe anche sostenersi il
contrario. Ovvero che proprio perché la nostra società è
aprioristicamente centrata sulla famiglia, lo Stato non è mai
riuscito a raggiungere una forma compiuta.
Ha fatto della sua
debolezza una condizione di normalità, consentendo in qualche caso,
più o meno tacitamente, che le famiglie surrogassero delle funzioni
per loro improprie (vedi welfare nelle storie di tutti i giorni).
Insomma senza rischiare di andare molto lontano è il solito annoso
problema: la società deve
basarsi sulla certezza della giustizia o sulla incertezza della
carità?
Fonte: SECONDA
INDAGINE CONOSCITIVA NELL’AMBITO DEL PROGETTO “OBIETTIVO 2023 -
OSSERVATORIO LAVORO OVER 40”
(by Nicola)
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