A furia di ripeterle anche le balle finiscono per sembrare vere e, tuttavia, non si può abdicare al dovere di ragionare. Ragionando, si vedrà che l’intervento giudiziario è in espansione in tutti i sistemi democratici. Ovunque esso crea frizioni con il potere politico, fino a turbare destini di governi. Gli esempi che si possono fare sono infiniti. Eccone alcuni: Clinton è stato processato perché una previdente stagista aveva conservato una certa macchia sul suo abito; la prima elezione di Bush è stata decisa da un giudice della Florida; l’ex primo ministro De Villepin è stato coinvolto in un affare di tangenti per alcune fregate vendute a Taiwan; in Israele il presidente della Repubblica Katsav si è dimesso (prima ancora della condanna) perché accusato di molestie sessuali.
Siamo dunque di fronte a un fenomeno che ha dimensioni oggettive, non riconducibile a mere forzature soggettive. Il caso italiano non fa eccezione, ma presenta una specificità che lo rende anomalo: il magistrato che tocca certi interessi deve mettere in conto che potrà subire un’aggressione, fatta di insulti (fresco di giornata quello che nella giustizia penale ci sono schegge impazzite che puntano all’eversione) e di ostacoli vari frapposti alla sua azione. Un accerchiamento che si risolve in un sostanziale rifiuto della giurisdizione o nel tentativo di piegarla ad interessi di parte. È questo il quadro che finiscono per disegnare alcune iniziative dell’attuale maggioranza in tema di giustizia (e si fa per dire: perché in realtà si tratta di interventi che hanno nel mirino il sereno esercizio della giurisdizione, mentre poco o nulla si continua a fare per la giustizia vera e propria, cioè per un miglior funzionamento del sistema). Il premier e i suoi epigoni (condizionati dall’ossessione del primo per i suoi problemi giudiziari) sfornano a ripetizione interventi che vanno appunto nella direzione dell’accerchiamento. Un giorno si parla di “processo breve”, ma tutti capiscono che l’obiettivo è far svanire – fra i tanti – due noti processi per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari. Il giorno dopo si parla di “processo lungo”, con una tendenza preoccupante alla schizofrenia e comunque mettendo in cantiere un progetto assurdo visti i tempi biblici della giustizia, ma utile a far precipitare altri processi “eccellenti” nel baratro della prescrizione. Poi c’è la riforma delle intercettazioni, che mentre impedisce di conoscere i vizi (pubblici o privati) di chi non ama troppi controlli, riduce pesantemente i poteri di indagine della magistratura. Come se ai medici si togliessero le radiografie, indispensabili – come le intercettazioni – per scoprire mali che altrimenti resterebbero nascosti.
Sullo sfondo la tempesta delle polemiche scatenate senza sosta contro i giudici. A partire dal colore turchese dei loro calzini. Proseguendo con gli ammonimenti a non parlare troppo disinvoltamente di giustizia (in un paese in cui tutti ne parlano, spesso con toni da bar dello sport): mentre proprio le asprezze della stagione richiedono ai magistrati la “parola” (che è un diritto, ma anche un contributo potenzialmente utile per una giustizia migliore). Per finire con la litania degli errori giudiziari che nessuno mai paga, quando si tratta non di errori ma di divergenze di valutazione fra le diverse fasi del giudizio. Divergenze (per quanto capaci di destare enorme scalpore) che di regola restano “fisiologiche”: salvo preferire un sistema come quello nordamericano – assai meno garantista del nostro – dove la condanna dell’imputato è decisa da una giuria popolare con un semplice bigliettino su cui sta scritto “guilty” (colpevole), senza nessuna motivazione e senza nessun controllo da parte di un altro giudice (l’appello non è ammesso, salvo che per specifiche questioni di procedura). Dunque delle due l’una: o si esclude anche da noi l’appello (così scompariranno gli “errori”, perché diventa impossibile il contrasto di giudizi) oppure, fermo restando il diritto di criticare tutte le sentenze, non si prendano più a pretesto dolorosissime vicende per agganciarvi attacchi al modo stesso di esercitare la giurisdizione, posto che le divergenze sono connaturate (“fisiologiche”) a un sistema articolato su più fasi. Invece, in Italia si registrano persino tentativi della maggioranza per ottenere dai giudici una certa interpretazione della legge o per sostituirsi a essi nell’interpretazione, rendendo così l’accerchiamento sempre più stretto e soffocante.
Siamo dunque di fronte a un fenomeno che ha dimensioni oggettive, non riconducibile a mere forzature soggettive. Il caso italiano non fa eccezione, ma presenta una specificità che lo rende anomalo: il magistrato che tocca certi interessi deve mettere in conto che potrà subire un’aggressione, fatta di insulti (fresco di giornata quello che nella giustizia penale ci sono schegge impazzite che puntano all’eversione) e di ostacoli vari frapposti alla sua azione. Un accerchiamento che si risolve in un sostanziale rifiuto della giurisdizione o nel tentativo di piegarla ad interessi di parte. È questo il quadro che finiscono per disegnare alcune iniziative dell’attuale maggioranza in tema di giustizia (e si fa per dire: perché in realtà si tratta di interventi che hanno nel mirino il sereno esercizio della giurisdizione, mentre poco o nulla si continua a fare per la giustizia vera e propria, cioè per un miglior funzionamento del sistema). Il premier e i suoi epigoni (condizionati dall’ossessione del primo per i suoi problemi giudiziari) sfornano a ripetizione interventi che vanno appunto nella direzione dell’accerchiamento. Un giorno si parla di “processo breve”, ma tutti capiscono che l’obiettivo è far svanire – fra i tanti – due noti processi per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari. Il giorno dopo si parla di “processo lungo”, con una tendenza preoccupante alla schizofrenia e comunque mettendo in cantiere un progetto assurdo visti i tempi biblici della giustizia, ma utile a far precipitare altri processi “eccellenti” nel baratro della prescrizione. Poi c’è la riforma delle intercettazioni, che mentre impedisce di conoscere i vizi (pubblici o privati) di chi non ama troppi controlli, riduce pesantemente i poteri di indagine della magistratura. Come se ai medici si togliessero le radiografie, indispensabili – come le intercettazioni – per scoprire mali che altrimenti resterebbero nascosti.
Sullo sfondo la tempesta delle polemiche scatenate senza sosta contro i giudici. A partire dal colore turchese dei loro calzini. Proseguendo con gli ammonimenti a non parlare troppo disinvoltamente di giustizia (in un paese in cui tutti ne parlano, spesso con toni da bar dello sport): mentre proprio le asprezze della stagione richiedono ai magistrati la “parola” (che è un diritto, ma anche un contributo potenzialmente utile per una giustizia migliore). Per finire con la litania degli errori giudiziari che nessuno mai paga, quando si tratta non di errori ma di divergenze di valutazione fra le diverse fasi del giudizio. Divergenze (per quanto capaci di destare enorme scalpore) che di regola restano “fisiologiche”: salvo preferire un sistema come quello nordamericano – assai meno garantista del nostro – dove la condanna dell’imputato è decisa da una giuria popolare con un semplice bigliettino su cui sta scritto “guilty” (colpevole), senza nessuna motivazione e senza nessun controllo da parte di un altro giudice (l’appello non è ammesso, salvo che per specifiche questioni di procedura). Dunque delle due l’una: o si esclude anche da noi l’appello (così scompariranno gli “errori”, perché diventa impossibile il contrasto di giudizi) oppure, fermo restando il diritto di criticare tutte le sentenze, non si prendano più a pretesto dolorosissime vicende per agganciarvi attacchi al modo stesso di esercitare la giurisdizione, posto che le divergenze sono connaturate (“fisiologiche”) a un sistema articolato su più fasi. Invece, in Italia si registrano persino tentativi della maggioranza per ottenere dai giudici una certa interpretazione della legge o per sostituirsi a essi nell’interpretazione, rendendo così l’accerchiamento sempre più stretto e soffocante.
Fonte: Gian Carlo Caselli, da il Fatto quotidiano, 7 ottobre 2011
(by Nicola)
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