Se l’Italia riparte dalle aree interne, come possono le aree interne emanciparsi da se stesse? Spieghiamo: la pandemia ci ha costretti a ragionare sugli spazi, sui luoghi poco – o meno - abitati del nostro Paese e ci ha portati a definirli rifugi, sacche di futuro, modelli di sviluppo sostenibile, mete di turismo lento e responsabile, officine per progetti di cambiamento, case in cui riabitare. Ma il modo in cui tutto questo smette di essere utopia e diventa realtà, sono stati in pochi a definirlo.
«Aree interne non si nasce, si diventa»: è una frase illuminante del Professor Rossano Pazzagli, con cui ci siamo confrontati in un percorso a ritroso e in avanti, fino a capire come si realizza questa nuova vita: la relazione con le città, il potenziale attrattivo, le disuguaglianze territoriali e le risorse in mano alle comunità. Rossano Pazzagli è docente di Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, esponente della Società dei Territorialisti. E’ stato anche Direttore del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini.
Oggi, dal suo osservatorio, come appaiono i margini dell’Italia?
«Sono territori a cui dobbiamo guardare sempre di più, sottovoce vorrei affermare che sono luoghi pronti al futuro, ma in realtà il processo di marginalizzazione e di declino sta continuando, con la conseguenza di una perdita dei servizi. Oggi le guardo con maggiore attenzione e dovremmo farlo tutti. L’emergenza sanitaria in corso ci indica le contraddizioni del nostro tempo e ci spinge a ripensarle, ingiustamente isolate dal processo di sviluppo dell’età contemporanea. Il paese è come scivolato a valle, molti sono andati via dalle colline, dalle montagne, dai fondo valle interni per spostarsi verso i centri urbani e le coste, verso l’estero anche. C’è stata un’emigrazione importante e queste aree hanno perso popolazione ed economie. Sono però rimaste molte cose – al contrario di ciò che si pensa – e lo dimostrano gli studi e le ricerche che stiamo portando avanti. Non solo perché, fisicamente, il niente non esiste, ma soprattutto perché questi territori sono ancora ricchi di valori utili agli abitanti e a tutta la società. E possiamo fare degli esempi: l’acqua, l’aria pura, il paesaggio, quell’insieme di servizi eco-sistemici di cui abbiamo bisogno. Ed è per questo che il compito di prendersene cura non va affidato solo a chi è rimasto, ma a tutti».
Perciò queste aree interne non sono sempre state lì, sono passate a questa condizione: che significa?
«Sono uno storico e – per deformazione professionale – sono portato a vedere gli accadimenti in una prospettiva di lungo periodo. Se mi riferisco alle aree interne, noto che ci sono tantissimi paesi in cui alla metà del Novecento vivevano molte più persone, esistevano diverse attività, c’era un paesaggio e un territorio curato, coltivato, pascolato e anche i boschi erano utilizzati. Tutte queste erano risorse. Non c’è nulla di ineluttabile perciò, essere aree interne non è questione di destino, la responsabilità appartiene ad un modello di sviluppo che ha scelto di polarizzare l’economia e la popolazione nelle zone centrali, trascurando e dimenticando gran parte della superficie nazionale, dal Nord al Sud, dove c’è una marginalizzazione ancora maggiore, perché la questione territoriale si somma alla questione meridionale. Il Mezzogiorno è colpito due volte, ma tutta l’Italia ha subito forti processi di marginalizzazione che hanno penalizzato in modo particolare l’agricoltura e l’allevamento, due settori da cui noi tutti dipendiamo».
Ci sono però diversi strumenti a sostegno, pensiamo alla Legge Piccoli Comuni, alla Strategia Nazionale Aree Interne, il Recovery Fund a misura di Sud: sono interventi che possono in qualche modo risollevare i territori interni?
«I soldi servono, ma non bastano. E questo ce lo dice l’esperienza passata, fatta di grandi finanziamenti e nessuno sviluppo reale. Allo stesso modo non servono i progetti calati dall’alto, per cui io credo che a queste azioni bisogna guardare con favore, soprattutto alla Snai, importante per aver introdotto una metodologia completamente nuova, confrontandosi con i territori. C’è bisogno di processi di programmazione dal basso, partecipati dalle comunità locali, che si basino prima di tutto sulle risorse endogene. Altrimenti riproporremo un modello già visto, quello dell’industria e degli investimenti che arrivano da fuori e solo sul momento producono qualche posto di lavoro, ma in prospettiva non si radicano e non vanno incontro alle vocazioni di un territorio. Non possiamo più pensare di risolvere i problemi delle aree interne applicandovi lo stesso modello che le ha marginalizzate, è necessario cambiare. Pensare alla rinascita significa invertire la prospettiva di sviluppo, creare un diverso mercato, un rinnovato rapporto città-campagna, senza guardare alla quantità ma alla qualità. Insomma, si deve uscire dall’idea della crescita infinita».
La pandemia, in questo senso, sembra aver avuto un’evoluzione: da crisi ad opportunità. Quanto è vero e quanto è possibile un ritorno alle aree interne, secondo lei?
«Non è possibile immaginare di ripopolare le aree interne senza riportare i servizi e senza creare opportunità di lavoro per chi ci abita. E’ un passaggio fondamentale. Io le definisco terre sane e il Covid ce lo ha dimostrato, colpendo prima e ferocemente le aree urbane più sviluppate e spontaneamente è accaduto che molti cittadini abbiano cominciato a ragionare su un possibile ritorno ai paesi. Al momento però si tratta solo di una fuga. La politica ha la responsabilità di trasformarla in qualcosa di duraturo, in una strategia. E per farlo non è possibile prendere scorciatoie, si passa per forza dai servizi: la scuola, i presidi sanitari, i collegamenti materiali – strade vere, quelle che in tante aree interne sono dissestate - e immateriali, quindi internet, la banda larga, le connessioni. Riabitare non significa tornare al passato, alla vita dei nonni. E’, piuttosto, utilizzare le nostre conoscenze e le nostre tecnologie per rendere queste zone nuovamente vive. Penso non ci sia nulla di meglio che stare in un bel posto, viverci, lavorare e avere i servizi necessari. Ecco, non siamo ancora in questa fase, la politica deve rendersi consapevole di una necessità, è il momento di investire sulla qualità della vita, sul ritorno in equilibrio tra uomo e ambiente, perché chi vuole la quantità sa già che può trovarla in città. Solo in questo modo le aree interne riusciranno a rappresentare davvero il futuro».
Nel documentario Genius of a place la regista Sarah Marder ha affrontato il tema dell’overtourism legato a Cortona, la sua città, e al repentino stravolgimento della vita per i suoi abitanti. Affermava che solo tutto cioè che è locale alla fine sopravvive: è così? Il locale sta sostituendo il globale?
«E’ un grandissimo tema, un rapporto costantemente in discussione. Ma sarei per evitare l’antitesi tra i due termini, se li poniamo in contrapposizione è facile capire qual è il risultato, sarebbe scontato. Invece dobbiamo cominciare ad interrogarci su come il locale può stare nel globale, lasciare che torni protagonista dell’orizzonte globale e per farlo bisogna prima di tutto avere coscienza di quello che abbiamo. Dopodiché servirebbe valorizzare le proprie specificità, perché questo è il tempo delle peculiarità, non dell’omologazione, di individuarle e promuoverle. E questo significa responsabilizzare anche le comunità che devono ritrovare un legame di conoscenza, di fiducia, con il loro territorio. Quando vado nelle aree interne incontro abitanti rassegnati, ecco, si deve lavorare anche su questo. Il capitale economico e il capitale sociale devono percorrere questa strada insieme. L’opportunità che ci viene offerta oggi è quella di rimettere i margini al centro, che sembra una contraddizione, ma non lo è. Abbiamo creato disuguaglianze, una condizione di isolamento e declino che dobbiamo rimettere al centro e risolvere. Ha a che fare con l’economia, ma di più con i diritti».
E’ un ragionamento in cui la tutela ambientale non può passare in secondo piano: come influisce sullo sviluppo e sul benessere delle comunità?
«In Italia, come nel resto del pianeta, abbiamo una grande questione ambientale aperta, nel nostro Paese va ad unirsi alla questione territoriale. Le aree interne sono quelle più pregiate da un punto di vista ambientale, sono le meno inquinate, le più ricche paesaggisticamente, hanno una maggiore biodiversità e questo insieme va considerato come un patrimonio da mettere a frutto. L’ambiente, l’agricoltura e il turismo sono le tappe fondamentali per la rinascita, i paesi sono la ricchezza, ancora lì a ricordarci l’antica importanza di quello che abbiamo e ad indicarci un cammino da riprendere».
Ci salutiamo con un’ultima grande domanda, più che altro un dubbio da risolvere: viene prima il turismo o la pratica del riabitare per rivitalizzare le aree interne? O meglio, come si riesce a bilanciare sviluppo turistico e fragilità del territorio?
«Dobbiamo chiederci quale turismo, per fare un’analisi. Certo non si addice alle aree interne quello di massa, né i flussi concentrati ed esasperati. Serve invece un turismo slow, continuativo, responsabile, d’esperienza, quello in cui si va nei luoghi non per scoprirli, ma per viverli e fare in quei luoghi tutto ciò che online ancora non è possibile fare. Assaggiare, interagire, sentire gli odori, partecipare ad una festa tradizionale, appropriarsi dei saperi. Purtroppo adesso siamo immersi in un tempo sospeso, ma tutto questo passerà e noi dovremo andare in questi territori con un animo diverso, senza commiserazione, senza un però da avanzare. Prima di intraprendere una politica turistica è necessario metterne in campo una per riabitare i luoghi, il turismo verrà di conseguenza. Il primo passo è stare di nuovo bene nelle aree interne, è imprescindibile».
Grazie Professore per la lezione illuminante...
«Grazie a voi per l’ascolto».
Fonte: ortìcalb.it
(by nicola)
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