La recente radiazione di Luca Palamara riporta sotto i riflettori la realtà del Consiglio Superiore della Magistratura. Intervista ad Antonio Ingroia, ex pm e oggi avvocato antimafia, che ribadisce la necessità di una riforma e torna anche sulle scarcerazioni della scorsa primavera e sugli allarmi di Di Matteo e Ardita della bandiera bianca e della resa davanti alle mafie, in un contesto determinante come il fronte carcerario. « La sciagurata circolare del Dap ha, tra l’altro, creato una disparità di trattamento: si sono date opportunità a boss mafiosi e meno a detenuti meno pericolosi.»
È stata decretata lo scorso 9 ottobre la radiazione dalla magistratura di Luca Palamara, fulcro del sistema finito nella bufera a partire dal maggio dell’anno scorso, quando furono rese note le prime intercettazioni. Un sistema su cui varie volte, in questi mesi, ci siamo soffermati, approfondendo tanti aspetti (spesso sottaciuti o ignorati dal dibattito pubblico e dai grandi mass media) con magistrati, giornalisti d’inchiesta come Sandra Amurri, uno storico studioso e militante dell’antimafia sociale come Umberto Santino ed altri. Ed è emerso, tra i dati più rilevanti, che il cosiddetto «sistema Palamara» non è solo l’incidente di un momento storico legato ad una sola persona, ma è il frutto di decenni di fatti e dinamiche che percorrono la magistratura associata, come già avvenuto per esempio con Giovanni Falcone sul finire degli anni ottanta e in anni più recenti con magistrati indipendenti e con la schiena dritta come Luigi De Magistris, Clementina Forleo e Antonio Ingroia.
Abbiamo chiesto proprio ad Antonio Ingroia, ex pm e oggi avvocato antimafia, presidente del movimento politico Azione Civile, di condividere con noi alcune riflessioni su quanto sta accadendo e su cosa sarebbe necessario per una vera ed autentica svolta.
È stata decretata l’espulsione dalla magistratura di Palamara, come dovrebbe proseguire l’azione della magistratura? Come dovrebbe riformarsi dopo quanto emerso nell’ultimo anno e mezzo?
«Considero la riforma Bonafede del Csm un pannicello caldo perché è del tutto inadeguata e non proporzionata alla gravità della situazione. Il caso Palamara è stato devastante per l’immagine della magistratura agli occhi dei cittadini, che rischia di essere compromessa in maniera definitiva come vedo ormai anche nella mia quotidiana attività di avvocato: i cittadini comuni credono sempre di meno nella giustizia e nella magistratura dopo questo emblematico caso. Che ha avuto un approdo in questo inevitabile e sacrosanto provvedimento di radiazione dalla magistratura ma che se si fermasse e limitasse solo a questo rappresenterebbe, a sua volta, un altro pannicello caldo. Non si può pensare di ridurre tutto al caso di una mela marcia in mezzo a tante mele sane così che buttando la mela marcia si salva il cesto.
Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza dei magistrati è composta da persone perbene che non seguono il sistema Palamara. Il problema non è questa stragrande maggioranza, che sta faticosamente ed onestamente portando avanti il loro impegno negli uffici giudiziari, ma quei pochi magistrati spesso premiati dentro il sistema Palamara. Indebitamente premiati nella loro carriera, che arrivano ai vertici degli uffici giudiziari spesso grazie a favori in termini di impunità che garantiscono alla classe politica entrando, poi, tra i cortigiani di questo o quel partito della classe politica stessa. Palamara si è rivelato certamente colpevole e responsabile di quelle condotte, ed è giusto sia stato radiato, ma non vorrei che questa sanzione così estrema rientri nel vecchio schema del capro espiatorio e la magistratura voglia auto assolversi.
Non c’è nulla di cui auto assolversi: Palamara era una rotella dell’ingranaggio, un segmento del sistema, certo ad un livello molto importante perché era un capo corrente, un capo bastone, è stato ai vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati e dentro il Consiglio Superiore della Magistratura e quindi ha direttamente gestito carriere. Ma lo ha fatto avvalendosi di un sistema, composto anche da altri capi corrente e capi bastone, da altri componenti del Csm, da altri magistrati che si sono avvalsi e hanno conquistato crediti e acquisito debiti nei confronti della classe politica, dei capi bastone e dei capi corrente. E di determinati personaggi della politica in questa sciagurata contiguità politica-magistratura che ha determinato favorevolmente la loro carriera e di cui poi si son dovuti sdebitare in termini di impunità.
Questo è avvenuto dentro il sistema Palamara, da qui dobbiamo partire altrimenti non si capirebbe nulla di quanto successo. Si parla di un modello di magistratura premiata negli ultimi decenni grazie ad un disegno politico scientifico a colpi di riforma della magistratura, canalizzata con un rafforzamento di poteri soprattutto sui capi delle procure in modo che si potesse controllare l’esercizio dell’azione penale controllando loro. Controllo grazie ad un meccanismo per il quale per diventare capo di una procura sei obbligato a passare per un sistema controllato dalle correnti giudiziarie e dai partiti politici. Rispetto a questo quadro rischia di apparire, seppur giusta, inadeguata la sanzione a Palamara se si fermasse lì. Dovrebbero esserci seguiti e Palamara stesso dovrebbe essere il primo interessato, come suol dirsi, a vuotare il sacco e raccontare tutto quello che sa su quel sistema facendo nomi, cognomi, fatti e circostanze. La giustizia disciplinare faccia ancora la sua parte al di là del caso Palamara, altrimenti tutto si trasformerebbe in una beffa per i cittadini, e contemporaneamente si devono porre dei rimedi di sistema».
Quali dovrebbero essere questi rimedi di sistema? La riforma Bonafede del Csm può essere efficace o, in caso contrario, cosa andava fatto?
«Palamara non è il diavolo che ha inventato un sistema, e quindi tutto si risolve con un «vade retro satana» espellendolo dalla magistratura. Come prima cosa bisognerebbe tornare indietro rispetto al progetto, ugualmente di centrodestra e centrosinistra accomunati dal disegno politico di asservimento della magistratura alla classe politica, di gerarchizzazione spinta delle Procure che ha accentrato tutti i poteri nelle mani dei capi. Si deve quindi tornare alla situazione degli anni ottanta e novanta di diffusione del potere giudiziario tra i magistrati in modo orizzontale, rendendo così sempre più difficile il controllo dell’azione giudiziaria. In secondo luogo occorre una riforma anche più che seria e profonda, radicale e che potremmo definire persino traumatica, del Consiglio Superiore della Magistratura. Luogo dove si costruiscono le carriere dei magistrati obbedienti e si stroncano quelle dei magistrati disobbedienti.
Si può fare con un sistema molto facile: recidere ogni legame tra i componenti del Csm e le parrocchie di provenienza ovvero le correnti giudiziarie, che designano i membri togati, e i partiti politici, che designano con metodo lottizzatorio i membri non togati, nominando tutti i membri con sorteggio che è l’unico modo per sottrarli al controllo di partiti e correnti. In passato, quando era stata fatta questa proposta recepita persino dallo stesso Movimento 5 Stelle che oggi esprime il ministro della Giustizia Bonafede, mi ero espresso contro perché mi sembrava un meccanismo troppo casuale e una mortificazione del Csm, convinto che potesse esser possibile cercare altre strade e puntare su una moralizzazione interna. Questa strada ammetto che è fallita, non c’è stata nessuna moralizzazione e anzi è avvenuto un processo inverso.
Mi sorprende che il Movimento 5 Stelle tramite il ministro Bonafede abbia fatto marcia indietro di fronte ad un caso così enorme come quello Palamara mentre si deve invece tornare a quell’idea. Sorteggio integrale, naturalmente equilibrato sia per le fasce professionali che per la provenienza geografica. Nessun membro del Csm sarebbe così debitore della sua elezione ad un capo bastone e ad un capo corrente e quindi il Palamara di turno, e di Palamara ce ne sono stati e ce ne sono ancora tanti, non potrà chiamare un membro del Csm e dirgli «io ti ho messo lì e quindi a capo di una procura devi nominare tizio o caio» a seconda degli accordi che ha preso con i capi bastone delle altre parrocchie, cioè i partiti politici. Stessa cosa sul fronte dei laici, oggi eletti dal Parlamento: vengano sorteggiati su una rosa di accademici, professori, avvocati con meccanismo analogo. Così si romperebbe il legame tra i membri del Csm e i partiti politici».
Nella prima puntata della nuova stagione della trasmissione televisiva Non è l’Arena, condotta su La7 da Massimo Giletti, è intervenuto Nino Di Matteo. Durante il suo intervento il magistrato antimafia, componente indipendente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha sottolineato (abbiamo riportato qui il suo intervento), che i mafiosi «temono il carcere a vita, una detenzione troppo lunga o una detenzione con modalità tali da interrompere i loro rapporti con il mondo esterno, da metterli in condizione di non poter più fare i mafiosi mentre sono detenuti», sulla questione scarcerazioni e la circolare del 31 marzo di condividere le parole di un altro componente indipendente del Csm, Sebastiano Ardita, «Lo Stato ha alzato bandiera bianca» lanciando l’allarme che «il segnale di resa dello Stato è nei fatti».
Dottor Ingroia, condivide i giudizi di Nino Di Matteo? Cosa si doveva fare per evitare questi segnali e cosa ora va fatto per cancellare questa sensazione, se di sola sensazione possiamo parlare? Dei provvedimenti di Bonafede in merito cosa ne pensa?
«Prima di tutto non andava permessa la sciagurata circolare del DAP che ha innescato tutta questa situazione, è ovviamente più facile la scarcerazione che riportare in carcere i detenuti mafiosi. Il decreto Bonafede ha avuto degli effetti minimi perché non volendo ammettere la responsabilità politica il ministro ha scelto un provvedimento che ha scaricato tutto il peso sulle spalle della magistratura. Si poteva intervenire riducendo gli spazi di discrezionalità dei magistrati di sorveglianza ed invece si è solo imposto agli stessi un riesame della situazione senza intervenire sui presupposti. La sciagurata circolare del Dap ha, tra l’altro, creato una disparità di trattamento: si sono date opportunità a boss mafiosi e meno a detenuti meno pericolosi, anche loro esposti ovviamente al rischio covid19. Questo è stato un segnale di bandiera bianca perché il fronte carcerario è sempre stato una linea di frontiera in cui si è combattuta la lotta tra mafia e antimafia e a cui la mafia tiene di più. Se esistesse un vero fronte antimafia su quella linea di frontiera non dovrebbe mai arretrare, non c’è dubbio che invece ci sono stati gravissimi arretramenti. La cui punta dell’iceberg è costituita da quella lettera ma si è rivelato tutto un pregresso a partire dall’incredibile dietrofront del ministro sulla nomina di Nino Di Matteo al DAP. Che rimane l’atto più grave e significativo di quella bandiera bianca».
Fonte: Wordnews.it - Il giornalismo è il cane da guardia del Potere
(by nicola)
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