venerdì 23 novembre 2018

RICOSTRUIRE IL PATRIMONIO DEL POPOLO: LA "PROPRIETA' PUBBLICA".




Una Comunità politica, cioè uno Stato, ha bisogno di un patrimonio pubblico (cioè di un patrimonio in proprietà collettiva del Popolo unitariamente considerato) destinato a soddisfare interessi pubblici e non altro, e di singoli patrimoni privati, con una sola inderogabile regola: il patrimonio privato di un singolo non può superare il patrimonio pubblico dell’intero Popolo. Lo chiarì molto bene Roosevelt in un discorso al congresso del 1938, nel quale affermò: “Una democrazia non è salda se consente a uno dei suoi membri di avere un patrimonio maggiore di quello dello stesso Stato democratico”.
Il dramma economico odierno è dovuto al fatto che, essendo stato consentito, con leggi incostituzionali, di “creare il danaro dal nulla” (cartolarizzazioni, derivati, ecc.), ed essendosi lasciata libera da ogni vincolo la “speculazione finanziaria”, i patrimoni dei privati (in gran parte speculatori finanziari) superano (secondo una rilevazione del 2010) di venti volte il PIL di tutti gli Stati del mondo. Da ciò deriva che il cosiddetto “mercato globale” si impone alla politica e detta ai politici le regole da trasformare in leggi. Come suole dirsi, l’economia prevale sul diritto.
Dietro questo fenomeno c’è un chiaro pensiero economico, il “pensiero neoliberista”, secondo il quale la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, questi pochi devono agire nella massima concorrenza, gli Stati, e cioè i Popoli nel loro complesso, non devono intervenire nell’economia. Di conseguenza, i pochi ricchi, possedendo prevalentemente una ricchezza fittizia che, per legge, vale come danaro contante, non hanno difficoltà a trasformare la loro ricchezza in beni reali, comprando a prezzi stracciati (anziché investire in attività produttive e occupazionali) i beni reali già esistenti. Di conseguenza, per quanto ci riguarda, l’intero territorio dello Stato italiano con tutto ciò che contiene, è finito, in gran parte, nelle mani di pochi soggetti (in prevalenza stranieri), lasciando il Popolo senza mezzi di sussistenza. I governi che si sono succeduti dall’assassinio di Aldo Moro in poi, anziché contrastare questa illegittima azione di appropriazione indebita della ricchezza di tutti, hanno seguito anch’essi la tesi neoliberista e, improvvidamente, hanno ritenuto di favorire gli acquisti privati di beni pubblici (cioè appartenenti a tutti) attraverso lo strumento micidiale delle “privatizzazioni”, delle quali si parlerà in seguito. Si è arrivati al punto di rendere “privati” i “demani pubblici”, in modo che al Popolo non restasse nulla e tutto cadesse in mano privata.
Nasce, a questo punto, l’economia del debito. Gli Stati economicamente più forti vendono “a debito” le loro merci agli Stati economicamente più deboli (vedi l’Argentina) fino a costringerli al fallimento. Nel nostro caso, poi, la cosa è aggravata dal fatto che abbiamo ceduto all’Europa la nostra “sovranità monetaria”, per cui abbiamo perso il potere di stampare moneta e prendiamo a prestito l’euro che è proprietà della BCE, e abbiamo l’obbligo di contenere il debito pubblico nei limiti di volta in volta stabiliti dalla Commissione Europea. Per di più siamo stati oggetto di mirate “speculazioni finanziarie”, che hanno alzato gli interessi sui nostri titoli del debito pubblico, aggravando enormemente il nostro debito complessivo.
E’ evidente, a questo punto, che la nostra salvezza sta nel tornare al “sistema economico produttivo” di stampo keynesiano, secondo il quale la ricchezza va distribuita alla base della piramide sociale (poiché sono i lavoratori che vanno ai negozi, sono i negozi che chiedono merci alle imprese e sono le imprese che assumono lavoratori e producono beni reali), mentre lo Stato deve intervenire da “protagonista” nell’economia, in modo da dare impulso agli investimenti che non producano merci da collocare sul mercato (non essendoci, in tempo di crisi, una vera e propria “domanda” di beni), ma soddisfino interessi pubblici (quale, ad esempio, il ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico dell’Italia), distribuendo ricchezza
tra i lavoratori, i quali soltanto sono in grado di far crescere la “domanda” e dar luogo a quel processo virtuoso, al quale abbiamo testé accennato, che porta alla produzione di beni e alla piena occupazione, quel processo, chiamato “il moltiplicatore del reddito”, sostenuto dal Keynes.
Lo sforzo da compiere, dunque, è quello di tornare al “sistema economico produttivo di stampo keynesiano”. Tutto questo è certamente possibile, ma occorre compiere dei passi ben calibrati, considerato che, improvvidamente, abbiamo svenduto il “patrimonio pubblico” e abbiamo, con molta poca lungimiranza, accettato di far parte della “moneta unica”, perdendo la nostra “sovranità monetaria”, il cui esercizio è davvero risolutivo per la questione che trattiamo.
Ma andiamo con ordine. Propedeutico a qualsiasi discorso è, a nostro avviso, ridefinire il concetto di “proprietà privata” quale risulta dall’art. 832 del codice civile (secondo il quale “il proprietario (privato) ha il diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), in modo conforme agli articoli 41 e 42 della Costituzione, considerato che siamo stati spogliati della nostra ricchezza nazionale in virtù di quella nozione civilistica tutt’altro che conforme al dettato costituzionale. In sostanza, si è continuato a leggere il codice civile come se la Costituzione non fosse intervenuta sull’argomento, addirittura con norme precettive, e come se l’azione del proprietario privato non potesse avere effetti negativi per l’intera Collettività. Questo modo di pensare, ovviamente, è proprio dell’ideologia borghese e, ora, neoliberista, e, probabilmente nel 1942 (quando fu emanato il codice) era difficile pensare che (a parte la questione dei latifondi) nella generalità dei casi la “circolazione della proprietà privata” non avesse la forza di influenzare negativamente l’interesse generale. Ma ora, con la globalizzazione dell’economia e della finanza, la situazione è di certo completamente cambiata. Di fronte a patrimoni privati che superano quelli degli Stati democratici e che, come si diceva , hanno una tale potenza da influenzare la politica e il diritto, il problema che trattiamo non può porsi senza tener presente l’effetto che l’accumulo della proprietà privata ha sull’intera economia nazionale. Provvide appaiono , quindi le disposizioni dei citati articoli 41 e 42 della Costituzione, i quali pongono come limiti insuperabili, rispettivamente, quello “dell’utilità sociale” e quello “della funzione sociale” della proprietà. E’, dunque, importante ricordare che l’art. 41 Cost., dopo aver sancito che “L’iniziativa economica privata è libera”, si affretta a precisare che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”, mentre l’art. 42 Cost., non solo afferma nettamente (al primo comma, primo alinea) che la “proprietà è pubblica o privata”, ma precisa altresì che quest’ultima (secondo comma), in tanto è “riconosciuta e garantita dalla legge”, in quanto “assicura la funzione sociale”, assicura cioè la tutela degli interessi pubblici che pure gravano sulla cosa in appartenenza individuale. Con l’ovvia conseguenza che se il proprietario non persegue la “funzione sociale” della cosa che gli appartiene, egli perde ogni diritto su di essa, la quale torna là da dove era venuta (così insegna la storia), e cioè nella “proprietà pubblica”, che il Giannini, nel secolo scorso, definiva “proprietà collettiva demaniale”, a titolo di sovranità. E’ il caso, sempre più frequente dei cosiddetti “beni immobili abbandonati”.
In sostanza, si tratta di affermare una summa divisio tra i beni che sono idonei a soddisfare (per qualità e quantità) i bisogni strettamente individuali e familiari, e quei beni che offrono utilità consistentemente maggiori, come una industria, un grande immobile, oppure quei beni naturali che da sempre sono stati definiti pubblici, come il mare, l’acqua corrente, l’aria, i lidi del mare e così via dicendo. Insomma, quello che è importante porre in rilievo è che la Costituzione protegge, prima dell’interesse privato, l’interesse pubblico che la collettività ha nei confronti di quei beni che offrono utilità di grande rilievo, o classificandoli come “beni pubblici”, o obbligando il proprietario privato (beninteso relativamente ai beni economici e cioè commerciabili che egli possiede) ad assicurare l’attuazione della “funzione sociale” della cosa di cui dispone.
A questo punto, come è ovvio, non si può più prescindere da una “interpretazione costituzionalmente orientata” del diritto di “proprietà privata” (opportuna sarebbe una legge di interpretazione autentica dell’art. 832 del codice civile), tenendo presente che, essendo cambiato l’ordinamento giuridico con l’avvento della Costituzione, si pone ora la necessità di interpretare la “proprietà privata” a nuovo ordinamento costituzionale, il quale pone al centro dell’ordinamento stesso il valore della “persona umana” e il “progresso spirituale e materiale della società” (art. 3 e 4 Cost.).
E’ per questo che, nel rispetto assoluto delle altrui opinioni, ci sentiamo di proporre la seguente “interpretazione costituzionalmente orientata” dell’art. 832 del codice civile: “La proprietà privata consiste nel diritto di godere della cosa, assicurandone la funzione sociale, e di disporre della cosa stessa, in modo da non contrastare l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana”.
E’ evidente che alla stregua di questa definizione sarebbe finalmente e realmente difesa la “il patrimonio pubblico”, restando alla teoria dei beni comuni, della quale tanto si parla, senza che si riesca ad arrivare a una definizione logicamente afferrabile, soltanto la soluzione dei problemi relativi alla migliore “gestione” dei beni che soddisfano interessi pubblici.
Precisato il concetto di “proprietà privata nei termini sopra descritti, è possibile fare un altro passo verso la ricostituzione del sistema economico produttivo di stampo keynesiano. Innanzitutto, è da sottolineare la piena contrarietà alla Costituzione delle cosiddette, micidiali, “privatizzazioni”, l’operazione cioè che “trasforma” gli “Enti pubblici” che gestiscono “interessi pubblici” in “società per azioni”. Far questo è assolutamente illogico. E significa, in sostanza, trasformare, con un espediente giuridico, un “bene pubblico” in un “bene privato”, mutandone altresì la “funzione sociale”. Il che fa pensare a una “mascherata truffa” ai danni del Popolo Italiano, fatto che è evidentemente vietato, quanto meno, dall’art. 42 della Costituzione. Deve poi osservarsi che chiunque, anche una società straniera, può scalare la SPA e diventare proprietario della società stessa, il cui rendimento economico può essere sottratto all’economia italiana e portato altrove. Ed è da rimarcare, poi, che è ovviamente assurdo ritenere che un soggetto che agisce nell’individuale interesse di una società privata, in virtù di un contratto (peraltro da ritenere nullo per mancanza di oggetto e perché in contrasto con le norme imperative della Costituzione (art. 1418 C.C.), possa invece conseguire un interesse pubblico. E l’esperienza dimostra ampiamente (si pensi al crollo del ponte di Genova), quanto ciò corrisponda a verità.
Altrettanto deve dirsi delle rovinose “delocalizzazioni” di imprese fuori dei confini nazionali. “Delocalizzare” significa innanzitutto “licenziare gli operai” e aumentare la disoccupazione. E ciò è apertamente in contrasto con la “funzione sociale” della proprietà, di cui all’art. 42 Cost. Significa inoltre arrecare un danno rilevantissimo agli interessi economici nazionali, poiché una “fonte di ricchezza”, qual è l’impresa, viene tolta all’economia italiana e viene a far parte di una economia straniera. Se le “privatizzazioni” colpiscono il “patrimonio pubblico” italiano in modo mascherato, le “delocalizzazioni” lo colpiscono in modo diretto e chiaramente visibile.
Quanto alle “svendite” di immobili pubblici e di demani, c’è poco da aggiungere: è la forma più sfacciata di alienazione della “proprietà pubblica” del Popolo italiano, e cioè di “fonti di produzione di ricchezza nazionale”. E a tutto ciò sono da aggiungere i “danni” e la conseguente “perdita di ricchezza” causati dalla devastazione sistematica del nostro “territorio” mediante costruzioni abusive o inutili, come certamente lo sono le cosiddette “grandi opere”, come la TAV o la TAP, il cui effetto è solo la distruzione dell’ambiente, il cui valore, come tutti sanno, è economicamente inestimabile.
Di fronte al rovinoso quadro fin qui descritto, appare indispensabile, non solo abbandonare questa insensata politica di svendita del patrimonio nazionale, in atto ormai di decenni, ma si dovrebbe fare il contrario: e cioè “nazionalizzare”, nei limiti del possibile, quanto si è perso e quanto è in pericolo di perdita per l’economia italiana.
E si tenga presente che una indicazione molto precisa in proposito ci viene data dall’art. 43 della Costituzione, secondo il quale dovrebbero appartenere “allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
A questo riguardo sarebbe molto opportuno ripescare l’idea della Golden Shere, individuata dai governo Monti e tradottasi del decreto legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito nella legge 11 maggio 2012, n.56, (invero mai tradottasi in una sua reale applicazione, anche a causa della sua abnorme complessità), in base alla quale vennero conferiti “poteri speciali” al Governo per controllare che le società per azioni derivanti dalla “privatizzazione” di Enti pubblici economici rispondessero anche a esigenze di interesse pubblico. Tale idea, tuttavia, andrebbe rovesciata rispetto a quanto voleva il governo Monti e questa “regola d’oro” dovrebbe servire al Governo, non solo per controllare le SPA derivanti dalle privatizzazioni di Enti pubblici (che ancora non possono essere ritrasformate in Enti o Aziende pubblici), ma per evitare che in Italia si continui, nell’illusione di pareggiare i bilanci, a “privatizzare”, “delocalizzare” e “svendere”, in pieno contrasto, come si è visto, con i principi e le norme costituzionali, il “patrimonio pubblico italiano.
E’ da osservare, a questo punto, che un limite forte alle “nazionalizzazioni” è dato dall’enorme debito pubblico che ci è stato messo sulle spalle dal mercato globale, dopo che il Ministro Andreatta (anticipando in ciò gli effetti della moneta unica e facendoci perdere in anticipo la “sovranità monetaria”), con una lettera del 12 febbraio 1981, sollevò la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti (ovviamente sostituendoli con moneta stampata). Da allora ci siamo dovuti rivolgere al mercato globale e questo ha fatto lievitare i tassi di interesse fino al 25 per cento, aggravando notevolmente il nostro debito.
Tuttavia, la questione del “debito”, a ben vedere, non è senza via d’uscita. Quello che conta, infatti è il rapporto tra debito e PIL, e se si riesce ad avere uno “sviluppo” del PIL che superi il debito, resteranno ovviamente gli interessi passivi da pagare, ma non sarà in gioco l’equilibrio contabile generale del nostro bilancio. C’è poi chi ha sostenuto (Paolo Ferrero, nel suo libro “La truffa del debito”) che oltre la metà del nostro debito pubblico è costituito da “interessi passivi” derivanti da speculazioni, le quali, lo si tenga presente, non sono un valido titolo giuridico per vantare dei crediti sul piano giuridico. Si potrebbe ancora aggiungere che il nostro debito, essendosi verificato un cambio del “sistema economico”, il quale da “produttivo” si è trasformato in un “sistema predatorio”, è diventato un debito “ingiusto, detestabile o odioso”, (come affermano alcuni Autori) e, quindi, non più rimborsabile, poiché è venuta meno la stessa possibilità materiale di farlo, si è realizzata, in altri termini, una “prestazione impossibile”, come recita l’art. 1218 del nostro codice civile. Comunque, quello che certamente si può e si deve fare è una “revisione” del debito, poiché è assolutamente incontestabile che nessun Paese può essere tenuto a pagare i debiti derivanti da speculazioni finanziarie, che sono atti di “guerra economica” e non possono costituire titolo giuridico valido, come poco sopra si diceva, per vantare diritti di credito. Si tratta, è vero, di una operazione molto difficile, che richiede intelligenza e grande professionalità, ma che non può non essere tentata, proprio per evitare che l’Italia sia sottoposta dall’Europa a una procedura per debito eccessivo.
Un ostacolo ben maggiore per la ricostituzione del “patrimonio pubblico” italiano è costituito, tuttavia, dalla nostra appartenenza all’area dell’euro. Infatti, proprio a causa dell’appartenenza alla “moneta unica” siamo stati sottoposti a un regime di austerità, che ci ha impedito un vero e proprio “sviluppo economico”, cancellando addirittura la nostra “politica economica”, che si è trasformata nella ricerca spasmodica dei mezzi finanziari necessari a rispettare l’obbligo di “pareggio del bilancio”, introdotto in Costituzione dal governo Monti in ossequio alle detestabili idee neoliberiste. Con questa insensata politica ci siamo posti, come suol dirsi, con la testa sotto la tagliola e ora liberarcene è estremamente difficile. Infatti, è facile prevedere che una uscita dall’euro comporterebbe la immediata reazione dei mercati, i quali porterebbero lo spread alle stelle e vanificherebbero tutti i nostri sforzi.
Per ora, i rimedi sono soltanto quelli sopra enunciati: ricostituzione, per quanto possibile, del “patrimonio pubblico” italiano, attraverso il “blocco” delle “privatizzazioni”, delle “delocalizzazioni e delle “svendite”, l’attuazione più ampia possibile delle “nazionalizzazioni”, degli “investimenti pubblici” idonei ad alimentare la domanda di beni e, quindi, a favorire l’occupazione, e infine la “revisione” del debito nei sensi sopra illustrati. Il tutto non apparendo ancora possibile poter riconquistare la nostra “sovranità monetaria”, e cioè il vero strumento capace di risolvere alla radice i nostri problemi economici.
Tuttavia una nuova speranza si è accesa nei nostri animi. La gente si sta rendendo conto che l’attuale politica europea ci sta portando alla miseria e alla morte (importante quanto sta avvenendo in Francia contro la politica di Macron) e, intanto, le elezioni del Parlamento europeo sono vicine. Se in Italia si riuscisse a sensibilizzare il Popolo sulla impellente necessità di seguire una linea politica come quella sopra indicata, una linea cioè rispettosa degli impegni che finora abbiamo preso con l’Unione Europea, e si cominciasse a ritenere che, per quanto riguarda l’Europa, la scelta non si pone, come finora hanno fatto ritenere i mass media, tra chi vuole confermare questa Europa (i cosiddetti conservatori alla Macron) e chi è decisamente contrario all’Unione Europea (i cosiddetti “sovranisti” o “populisti”), ma che c’è una terza via da seguire, e cioè quella di costruire una Europa davvero “federale”, che tratti tutti gli Stati membri “in condizioni di parità” (come afferma l’art. 11 della nostra Costituzione repubblicana), si potrebbe davvero cominciare a sperare di portare nel Parlamento Europeo delle persone che, operando dall’interno, riescano, un po’ per volta, a far breccia sugli altri parlamentari e a far loro capire che l’idea del “neoliberismo” (visti i disastri che ha prodotto) deve dirsi finalmente superata, mentre al suo posto deve avere sempre maggior forza una idea che, partendo dagli schemi keynesiani, metta al centro dell’attenzione l’uomo e l’ambiente, prospettando un modo di vivere non più concorrenziale e consumista, ma legato ai valori che “madre Terra” esprime e richiede. Qualcuno (Latouche) ha parlato di “decrescita felice”, e presto questa frase è stata contestata dal neoliberismo imperante, ma, se davvero si vuole, come vogliono i Trattati Europei, la giustizia e la pace, effettivamente non c’è altra via che quella di viaggiare verso una meta di valore egualitario, una meta cioè che ponga come principio fondamentale l’eguaglianza, distribuendo a tutti il necessario per vivere e ponendo l’accento del rapporto tra uomo e ambiente come “un rapporto tra la parte e il tutto”, essendo unica per tutti gli esseri viventi, piante comprese, la vita che ci circonda.

Professor Paolo Maddalena

Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale e Presidente dell’associazione “Attuare la Costituzione”

(by Nicola)

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