Parafrasando la canzone “Felicità” mi viene da canticchiare “Senti nell’aria c’è già la nostra Nazione d’amore che va – come un pensiero che sa di legalità”.
Nella nostra società un termine è oramai desueto, obsoleto, ignorato, offeso: legalità. Come noto il principio di legalità si afferma dopo la rivoluzione francese e insorge come risposta al potere e all’oppressione dell’Ancien Regìme. Già questo dovrebbe farci riflettere tutti.
Non m’interessa ora dissertare del principio, nelle sue vesti formali e sostanziali. Non m’interessa sviscerare il suo archetipo giuridico. M’interessa la sua anima. Il nesso indissolubile tra legalità e democrazia, il primo a presidio dell’altro. Senza legalità non v’è democrazia. Dovremmo ricordarlo ogni giorno, scolpirlo sulla nostra porta, nei tatuaggi, sui manifesti. Soprattutto nei nostri cuori e nelle nostre menti.
In questo Paese la legalità è stata erosa pezzo per pezzo, frantumata, digerita, metabolizzata, espulsa fecalmente. Anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, Tv dopo Tv, giornale dopo giornale, velina dopo velina.
E’ oramai divenuta una poltiglia fetida, buona solo per arricchire una perifrasi o per completarla. La legalità è diventata la figura retorica di se stessa. Perlomeno in Italia.
Provate a sussurrare la parola “legalità” in mezzo alla gente, in un dibattito. Vi guarderanno come degli attempati, esponenti di un’altra epoca, di un’altra società. Questo è il problema. Grave.
Oramai siamo alla illegalità diffusa, sottopelle, radicata, cementata, condivisa, inoculata (lentamente), trionfata, acclamata. Una illegalità di Stato perché elargita e diffusa da decenni da una classe politica ributtante, priva del senso dello Stato, priva del senso del dovere, priva di morale e comunque priva di dignità (nell’andarsene). Una classe politica che ha disseminato la nostra democrazia (quindi minato e disgregato) di condoni (edilizi, fiscali), prescrizioni brevi, abrogazioni, processi brevi, violazioni di referendum, lodi (poco sperticate) alfani con doppio e triplo salto caropiato, opere pubbliche mangiasoldi, enti inutili, cariche inutili, riti processuali inutili, riforme inutili.
Una classe politica che si auto-giudica, che invade il potere giudiziario. Una classe politica che per decenni ha sfamato la propria pancia affamando il popolo e trasfigurandolo in un ricettore sensibile di illegalità. Assuefandolo lentamente.
No, non credo che gli italiani abbiano la classe politica che si meritano. Credo che si meritino di meglio. Lo vedo negli occhi di chi ogni giorno è un eroe silenzioso e cerca di cambiare nel piccolo questo Paese.
No, non credo che vi sia un imperante qualunquismo, populismo che crea rancore oltre il dovuto, che non sa distinguere, che avvolge tutto in una massa informe. Credo solo che la teocrazia gerontocratica illiberale si ostini a non lasciare il futuro alle nuove generazioni, al merito, alle idee, alle emozioni. Credo che non lo voglia e non lo sappia fare semplicemente perché non rientra tra i suoi progetti.
Nella nostra società un termine è oramai desueto, obsoleto, ignorato, offeso: legalità. Come noto il principio di legalità si afferma dopo la rivoluzione francese e insorge come risposta al potere e all’oppressione dell’Ancien Regìme. Già questo dovrebbe farci riflettere tutti.
Non m’interessa ora dissertare del principio, nelle sue vesti formali e sostanziali. Non m’interessa sviscerare il suo archetipo giuridico. M’interessa la sua anima. Il nesso indissolubile tra legalità e democrazia, il primo a presidio dell’altro. Senza legalità non v’è democrazia. Dovremmo ricordarlo ogni giorno, scolpirlo sulla nostra porta, nei tatuaggi, sui manifesti. Soprattutto nei nostri cuori e nelle nostre menti.
In questo Paese la legalità è stata erosa pezzo per pezzo, frantumata, digerita, metabolizzata, espulsa fecalmente. Anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, Tv dopo Tv, giornale dopo giornale, velina dopo velina.
E’ oramai divenuta una poltiglia fetida, buona solo per arricchire una perifrasi o per completarla. La legalità è diventata la figura retorica di se stessa. Perlomeno in Italia.
Provate a sussurrare la parola “legalità” in mezzo alla gente, in un dibattito. Vi guarderanno come degli attempati, esponenti di un’altra epoca, di un’altra società. Questo è il problema. Grave.
Oramai siamo alla illegalità diffusa, sottopelle, radicata, cementata, condivisa, inoculata (lentamente), trionfata, acclamata. Una illegalità di Stato perché elargita e diffusa da decenni da una classe politica ributtante, priva del senso dello Stato, priva del senso del dovere, priva di morale e comunque priva di dignità (nell’andarsene). Una classe politica che ha disseminato la nostra democrazia (quindi minato e disgregato) di condoni (edilizi, fiscali), prescrizioni brevi, abrogazioni, processi brevi, violazioni di referendum, lodi (poco sperticate) alfani con doppio e triplo salto caropiato, opere pubbliche mangiasoldi, enti inutili, cariche inutili, riti processuali inutili, riforme inutili.
Una classe politica che si auto-giudica, che invade il potere giudiziario. Una classe politica che per decenni ha sfamato la propria pancia affamando il popolo e trasfigurandolo in un ricettore sensibile di illegalità. Assuefandolo lentamente.
No, non credo che gli italiani abbiano la classe politica che si meritano. Credo che si meritino di meglio. Lo vedo negli occhi di chi ogni giorno è un eroe silenzioso e cerca di cambiare nel piccolo questo Paese.
No, non credo che vi sia un imperante qualunquismo, populismo che crea rancore oltre il dovuto, che non sa distinguere, che avvolge tutto in una massa informe. Credo solo che la teocrazia gerontocratica illiberale si ostini a non lasciare il futuro alle nuove generazioni, al merito, alle idee, alle emozioni. Credo che non lo voglia e non lo sappia fare semplicemente perché non rientra tra i suoi progetti.
Credo che sia assolutamente necessario ripartire dalle famiglie, dagli asili, dalle scuole materne, dalle medie per spiegare cosa sia la “legge”, la Costituzione, quanti italiani siano morti per fondare la democrazia, per garantirla. Credo che sia opportuno ripartire dagli eroi (quelli autentici, non quelli autoproclamatisi tali), dalle grandi personalità culturali, dalla severità come strumento pedagogico, dal profondo rispetto degli altri, dal sentirci un “noi” e non un “io”. Credo che si debba insegnare cosa sia una regola e quanto sia importante che la si rispetti e che tutti ci si adoperi per farla rispettare.
Credo che non possiamo più permetterci un premier che legiferi per vent’anni per se stesso, impunemente, impudicamente, sdegnosamente, ostentatamente. E di una corte di giullari che acclama il re ad ogni sospiro, dichiarando che non sono solo sospiri ma veri aliti di vento, salutari per tutti.
Credo che non possiamo più permetterci un popolo che silente, acconsenta a tutto ciò, senza avere la dignità di scendere in piazza e assediare pacificamente le istituzioni per giorni interi, sino allo sfinimento di chi le (mal)governa trasformando la democrazia nel suo contrario.
Credo che dobbiamo iniziare a parlare di legalità seriamente, perché essa costituisce le fondamenta della nostra democrazia, oramai collassata. Credo.
Credo che non possiamo più permetterci un premier che legiferi per vent’anni per se stesso, impunemente, impudicamente, sdegnosamente, ostentatamente. E di una corte di giullari che acclama il re ad ogni sospiro, dichiarando che non sono solo sospiri ma veri aliti di vento, salutari per tutti.
Credo che non possiamo più permetterci un popolo che silente, acconsenta a tutto ciò, senza avere la dignità di scendere in piazza e assediare pacificamente le istituzioni per giorni interi, sino allo sfinimento di chi le (mal)governa trasformando la democrazia nel suo contrario.
Credo che dobbiamo iniziare a parlare di legalità seriamente, perché essa costituisce le fondamenta della nostra democrazia, oramai collassata. Credo.
Fonte: Il Fatto, 27.9.11 - Marcello Adriano Mazzola
(by Nicola)
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