Abbiamo sottolineato in più scritti che l’Italia può uscire dalla crisi soltanto se i nostri governanti (opponendosi anche al regime di austerità impostoci dalla cosiddetta Europa) riusciranno ad attuare la parte della Costituzione che riguarda i “rapporti economici” (Titolo III, Parte I, Cost.): un vero e proprio “programma di governo”, che prevede un equilibrato rapporto tra pubblico e privato e, in particolare, l’intervento nel mercato, non solo degli individui, ma anche del Popolo nel suo insieme (attraverso i propri Enti pubblici economici). Infatti soltanto tutto il Popolo può mettere in campo le risorse necessarie per poter evitare che singoli soggetti aspirino la ricchezza di tutti (ricchezza che proviene dal territorio e dalle occasioni di lavoro che lo stare insieme produce) e diventino tanto ricchi da poter governare il mondo sottoponendo ai loro voleri la libertà e la vita stessa di tutti gli altri individui. Questo programma costituzionale è, ovviamente, in contrasto con i Trattati Europei, specie con quelli da Maastricht in poi, i quali, “sacralizzano”, per così dire, il “libero mercato” e il connesso concetto della “concorrenza”, eliminando qualsiasi limite all’accumulo della proprietà privata, e dunque all’affermazione del più forte sui più debole.
Ma, per fortuna, la Costituzione della Repubblica Italiana ha una posizione gerarchicamente superiore ai Trattati, allorché si tratta di tutela dei diritti inviolabili, come dimostra la teoria dei “contro limiti” sempre applicata dalla nostra giurisprudenza costituzionale e come ha affermato più volte, per la Germania, la Corte costituzionale tedesca.
Se ci si pone nel quadro tratteggiato dalla nostra Costituzione il primo dato da chiarire è che non esiste, nel nostro ordinamento giuridico, soltanto la “proprietà privata”, come comunemente si crede, ma che, accanto a questa, esiste, e preesiste, la “proprietà collettiva” dell’intero Popolo. Come ha da tempo dimostrato il Niebhur, riferendosi alla fondazione di Roma, la proprietà collettiva ha preceduto, e di molto, la proprietà privata. Il “territorio”, infatti, è stato sempre ritenuto un “contenuto” della “sovranità”, e, spettando la “sovranità” al “Popolo”, è a questi che fin dalle origini è appartenuto il territorio. Ne è prova il fatto che quando si è voluto dare in possesso ai veterani parte dei terreni conquistati è stata sempre necessaria una manifestazione di volontà del Popolo per “cedere” a singoli una parte delle conquiste. In particolare, occorreva una lex centuriata o un plebiscitum, cui facesse seguito una solenne cerimonia detta della “divisio et adsignatio agrorum”. Qualcosa di simile all’odierna proprietà privata nacque soltanto agli albori del I secolo a.C., quando la giurisprudenza, non senza contrasti, cominciò a parlare del “dominium ex iure Quiritium”. D’altro canto, è da tener presente che l’appartenenza del territorio al titolare della sovranità non
venne meno neppure nel medio evo, allorché la sovranità si spostò dal Popolo al Sovrano. In quell’epoca, infatti, si distinse un “dominium utile” del coltivatore della terra”, dal “dominium eminens” del Sovrano.
La “cesura” tra territorio e sovranità avvenne solo con la Restaurazione voluta da Napoleone. Infatti, il Portalis, incaricato della redazione del ”Code civil” del 1804, ispirò la sua opera al principio: “l’Imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. E fu qui che la proprietà privata cominciò a essere considerata come “originaria”, dimenticandosene la sua provenienza dalla “proprietà collettiva”.
La Costituzione repubblicana ha tuttavia rimesso le cose a posto. Essa, all’art. 42 Cost., dispone che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. C’è, dunque, un atto sovrano del Popolo (la legge), che sottrae a tutti una cosa (e perciò si parla di una cosa “privata”) e la assegna a un singolo, sotto la “condizione risolutiva” che la cosa stessa sia destinata a “una funzione sociale”, per cui se quest’ultima non fosse perseguita o venisse meno nel tempo, la cosa tornerebbe, ovviamente, là da dove era venuta, e cioè nella proprietà collettiva di tutti, come ricordano, tra l’altro l’art. 827 del codice civile per il bene rimasto senza proprietario, e l’art. 31 del t. u. sull’edilizia in ordine alle costruzioni effettuate senza concessione edilizia e in difformità al piano regolatore generale. E’, quest’ultima, una considerazione molto importante, poiché la crisi in atto ha fatto lasciare sul terrene una quantità enorme di industrie e capannoni non più utilizzati, la cui proprietà, proprio per l’effetto dell’abbandono e del conseguente venir meno della “funzione sociale”, deve ritenersi tornata in capo al Popolo a titolo di proprietà collettiva sovrana, imponendo al Popolo stesso la necessità di una riutilizzazione sociale di tali beni.
Dunque, possiamo concludere sul punto, affermando che, accanto alla proprietà privata, esiste, a titolo di sovranità una “proprietà collettiva” del Popolo sul territorio. E, per essere precisi, occorre anche sottolineare che la “proprietà collettiva” del popolo si manifesta in modo pieno sui “beni demaniali”, assumendo la denominazione, come ricorda il Giannini, di “proprietà collettiva demaniale”, mentre sui beni ceduti in proprietà privata continua a esistere, come ricorda acutamente Carl Schmitt, una sorta di “superproprietà collettiva”, che si manifesta nel potere di pianificazione, di conformazione della proprietà privata e della “concessione edilizia” (è questa l’espressione esatta, non ostante una niente affatto condivisibile sentenza della Corte costituzionale, la n. 5 del 1980, abbia imposto una diversa terminologia).
E in proposito è da ricordare che l’estensione a tutto il territorio nazionale della “necessità” di ottenere la “licenza edilizia” (con tutti i limiti che questa comporta) per qualsiasi tipo di costruzione, avvenuta con la legge urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942, successiva alle disposizioni di cui all’art. 934 e all’art. 952 del codice civile (il quale è stato emanato con Regio decreto 16 marzo 1942, n. 262), in combinato disposto con il citato art. 42 della Costituzione, impone, quanto meno, una diversa interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice civile, in base alla quale è doveroso ritenere che il “ius aedificandi”, e cioè il diritto di costruire, non rientra nelle facoltà del proprietario del suolo (come si ricaverebbe dai citati articoli del codice civile), ed è invece espressione di quella “super-proprietà”, a cui sopra si è fatto cenno, della Collettività interessata, il cui contenuto è costituito per l’appunto dal diritto di modificare il territorio.
Diritto questo che, come si è detto, si estrinseca nei poteri di pianificazione, di conformazione della proprietà privata, di concessione della licenza edilizia, tutte facoltà che “non” sono state “cedute” al singolo nel momento del riconoscimento della sua proprietà privata. Lo conferma l’art. 31 della citata legge urbanistica, secondo il quale “chiunque .... può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di legge o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”: in altre parole, ciascun cittadino, può agire in giudizio per tutelare l’interesse generale all’osservanza delle leggi in materia. Una vera e propria “actio popularis”, azione popolare, il cui fondamento, come è noto è nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, il quale sancisce che “i cittadini, singoli o associati” possono svolgere “attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Insomma si tratta di “attuare la Costituzione”, la cui corretta interpretazione è stata fuorviata da una cultura borghese fatta propria anche dall’Accademia. Ci attende, dunque, un compito non facile, ma necessario perché si ristabilisca un equilibrio tra pubblico e privato e il Popolo possa tornare a essere “protagonista” dell’economia. Non sfugge infatti che una cosa è far valere “l’imperio della Legge” e altra cosa è far valere in
giudizio, contro il proprietario privato, la “proprietà e la superproprietà collettive”, che spettano al Popolo a titolo di sovranità.
Ma, per fortuna, la Costituzione della Repubblica Italiana ha una posizione gerarchicamente superiore ai Trattati, allorché si tratta di tutela dei diritti inviolabili, come dimostra la teoria dei “contro limiti” sempre applicata dalla nostra giurisprudenza costituzionale e come ha affermato più volte, per la Germania, la Corte costituzionale tedesca.
Se ci si pone nel quadro tratteggiato dalla nostra Costituzione il primo dato da chiarire è che non esiste, nel nostro ordinamento giuridico, soltanto la “proprietà privata”, come comunemente si crede, ma che, accanto a questa, esiste, e preesiste, la “proprietà collettiva” dell’intero Popolo. Come ha da tempo dimostrato il Niebhur, riferendosi alla fondazione di Roma, la proprietà collettiva ha preceduto, e di molto, la proprietà privata. Il “territorio”, infatti, è stato sempre ritenuto un “contenuto” della “sovranità”, e, spettando la “sovranità” al “Popolo”, è a questi che fin dalle origini è appartenuto il territorio. Ne è prova il fatto che quando si è voluto dare in possesso ai veterani parte dei terreni conquistati è stata sempre necessaria una manifestazione di volontà del Popolo per “cedere” a singoli una parte delle conquiste. In particolare, occorreva una lex centuriata o un plebiscitum, cui facesse seguito una solenne cerimonia detta della “divisio et adsignatio agrorum”. Qualcosa di simile all’odierna proprietà privata nacque soltanto agli albori del I secolo a.C., quando la giurisprudenza, non senza contrasti, cominciò a parlare del “dominium ex iure Quiritium”. D’altro canto, è da tener presente che l’appartenenza del territorio al titolare della sovranità non
venne meno neppure nel medio evo, allorché la sovranità si spostò dal Popolo al Sovrano. In quell’epoca, infatti, si distinse un “dominium utile” del coltivatore della terra”, dal “dominium eminens” del Sovrano.
La “cesura” tra territorio e sovranità avvenne solo con la Restaurazione voluta da Napoleone. Infatti, il Portalis, incaricato della redazione del ”Code civil” del 1804, ispirò la sua opera al principio: “l’Imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. E fu qui che la proprietà privata cominciò a essere considerata come “originaria”, dimenticandosene la sua provenienza dalla “proprietà collettiva”.
La Costituzione repubblicana ha tuttavia rimesso le cose a posto. Essa, all’art. 42 Cost., dispone che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. C’è, dunque, un atto sovrano del Popolo (la legge), che sottrae a tutti una cosa (e perciò si parla di una cosa “privata”) e la assegna a un singolo, sotto la “condizione risolutiva” che la cosa stessa sia destinata a “una funzione sociale”, per cui se quest’ultima non fosse perseguita o venisse meno nel tempo, la cosa tornerebbe, ovviamente, là da dove era venuta, e cioè nella proprietà collettiva di tutti, come ricordano, tra l’altro l’art. 827 del codice civile per il bene rimasto senza proprietario, e l’art. 31 del t. u. sull’edilizia in ordine alle costruzioni effettuate senza concessione edilizia e in difformità al piano regolatore generale. E’, quest’ultima, una considerazione molto importante, poiché la crisi in atto ha fatto lasciare sul terrene una quantità enorme di industrie e capannoni non più utilizzati, la cui proprietà, proprio per l’effetto dell’abbandono e del conseguente venir meno della “funzione sociale”, deve ritenersi tornata in capo al Popolo a titolo di proprietà collettiva sovrana, imponendo al Popolo stesso la necessità di una riutilizzazione sociale di tali beni.
Dunque, possiamo concludere sul punto, affermando che, accanto alla proprietà privata, esiste, a titolo di sovranità una “proprietà collettiva” del Popolo sul territorio. E, per essere precisi, occorre anche sottolineare che la “proprietà collettiva” del popolo si manifesta in modo pieno sui “beni demaniali”, assumendo la denominazione, come ricorda il Giannini, di “proprietà collettiva demaniale”, mentre sui beni ceduti in proprietà privata continua a esistere, come ricorda acutamente Carl Schmitt, una sorta di “superproprietà collettiva”, che si manifesta nel potere di pianificazione, di conformazione della proprietà privata e della “concessione edilizia” (è questa l’espressione esatta, non ostante una niente affatto condivisibile sentenza della Corte costituzionale, la n. 5 del 1980, abbia imposto una diversa terminologia).
E in proposito è da ricordare che l’estensione a tutto il territorio nazionale della “necessità” di ottenere la “licenza edilizia” (con tutti i limiti che questa comporta) per qualsiasi tipo di costruzione, avvenuta con la legge urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942, successiva alle disposizioni di cui all’art. 934 e all’art. 952 del codice civile (il quale è stato emanato con Regio decreto 16 marzo 1942, n. 262), in combinato disposto con il citato art. 42 della Costituzione, impone, quanto meno, una diversa interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice civile, in base alla quale è doveroso ritenere che il “ius aedificandi”, e cioè il diritto di costruire, non rientra nelle facoltà del proprietario del suolo (come si ricaverebbe dai citati articoli del codice civile), ed è invece espressione di quella “super-proprietà”, a cui sopra si è fatto cenno, della Collettività interessata, il cui contenuto è costituito per l’appunto dal diritto di modificare il territorio.
Diritto questo che, come si è detto, si estrinseca nei poteri di pianificazione, di conformazione della proprietà privata, di concessione della licenza edilizia, tutte facoltà che “non” sono state “cedute” al singolo nel momento del riconoscimento della sua proprietà privata. Lo conferma l’art. 31 della citata legge urbanistica, secondo il quale “chiunque .... può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di legge o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”: in altre parole, ciascun cittadino, può agire in giudizio per tutelare l’interesse generale all’osservanza delle leggi in materia. Una vera e propria “actio popularis”, azione popolare, il cui fondamento, come è noto è nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, il quale sancisce che “i cittadini, singoli o associati” possono svolgere “attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Insomma si tratta di “attuare la Costituzione”, la cui corretta interpretazione è stata fuorviata da una cultura borghese fatta propria anche dall’Accademia. Ci attende, dunque, un compito non facile, ma necessario perché si ristabilisca un equilibrio tra pubblico e privato e il Popolo possa tornare a essere “protagonista” dell’economia. Non sfugge infatti che una cosa è far valere “l’imperio della Legge” e altra cosa è far valere in
giudizio, contro il proprietario privato, la “proprietà e la superproprietà collettive”, che spettano al Popolo a titolo di sovranità.
Paolo Maddalena
(by Nicola)
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